LE MERAVIGLIE DI BAGAN E IL TREKKING NELLA FORESTA
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LE MERAVIGLIE DI BAGAN E IL TREKKING NELLA FORESTA
Le bellezze del Myanmar tra templi e natura
Le bellezze del Myanmar tra templi e natura
Le bellezze del Myanmar tra templi e natura
Le bellezze del Myanmar tra templi e natura
Myanmar - Birmania, gennaio 2013
Quando andare in Myanmar?
Noi siamo andati a fine anno, dal 27 dicembre 2012 al 12 gennaio 2013.
Cosa vedere in Myanmar?
Le informazioni sulla ex Birmania erano scarse e talvolta contradditorie.
Abbiamo cercato di pianificare le due settimane raccogliendo indicazioni da varie fonti (vedi i nostri consigli riepilogativi) per riuscire a organizzare il nostro "solito" circuito: visita ai monumenti e città principali con l´aggiunta di qualche giorno di trekking con guida locale e finale rilassante al mare.
Quale potrebbe essere un buon itinerario per visitare il Myanmar?
Noi abbiamo cercato di avere una panoramica ampia del Paese, cercando di non tralasciare le mete "imperdibili". Yangon -> Kyaiktiyo (Golden Rock) -> Bago -> Yangon - Bagan (via shuttle bus) -> Mandalay (via aereo) -> Amarapura -> Mingun -> Heho (via aereo) -> Pindaya -> Kalaw (3 days trekking) -> Inle Lake -> Heho -> Thandwe (via aereo) -> Ngapali Beach (soggiorno al mare) -> Yangon
Stop-over a Doha, in Qatar
La giornata non è bella, il cielo è grigio sembra quasi che ci sia la nebbia e non fa troppo caldo.
Usciamo dall´hotel e la nostra attenzione è catturata da alti grattacieli abbastanza anonimi.
La città sorge tra il deserto e il mare, i palazzi sono tutti nuovi e non riesco a capire se da qualche parte ci sia una città vecchia.
Decidiamo di visitare subito il Suq Waqif, indicato dalla guida come la parte più interessante della città. In realtà si tratta di una zona recentemente ricostruita come un vecchio suq arabo ma nessuna bottega o via è originale.
È ancora abbastanza presto, i negozi sono tutti chiusi e non c'è nessuno in giro. Giriamo indisturbati fra le viuzze; gli edifici e le botteghe sono molto belli ma non riescono a trasmetterci alcuna atmosfera o sensazione particolare, tutto è troppo finto.
Ci incamminiamo lungo la corniche e passeggiamo sul lungomare pulito e ordinato con colorate aiuole di fiori. Facciamo tappa al vecchio molo dei dhow, anche questo nuovo e ancora parzialmente in costruzione.
Lontano si scorgono le sagome degli avveniristici grattacieli della zona più moderna. Camminiamo fino a raggiungerli con l'intenzione di visitare quello che crediamo sia il centro finanziario della città. Una volta arrivati sotto gli edifici scopriamo però che sono ancora in costruzione, l´intera zona è un cantiere inaccessibile. Chissà dove si trovano le abitazioni...
Iniziamo a vedere un po' di persone in giro, lentamente la città si sta animando. Le strade sono percorse da suv giganteschi con i finestrini oscurati da cui scendono famigliole pronte per lo struscio del venerdì.
Il Museum of Islamic Art di Doha
Pranziamo in un ristorante del suq e dal nostro tavolo abbiamo una posizione privilegiata per guardare tutte le persone che passeggiano davanti a noi.
Gli uomini sono molto eleganti, indossano quasi tutti la tradizionale tunica di un bianco abbagliante e il turbante colorato.
Le donne hanno tutte il capo e parte del viso coperti, alcune indossano tabarri neri che coprono anche il volto e le mani. La maggior parte delle donne indossa scarpe dal tacco altissimo che spuntano inaspettate dalle lunghe vesti mentre camminano.
Gli occhi vistosamente truccati con il kajal nero spiccano sui volti velati; lunghe ciglia incorniciano occhi neri che lanciano sguardi maliziosi e ammiccanti. Alcune giovani donne sono strizzate in tuniche nere super aderenti e sciancrate che, anche se sono lunghe fino ai piedi, segnano le forme e lasciano ben poco all´immaginazione. Anche se coperte dalla testa ai piedi le donne sono attraenti e molto curate.
La città è pulitissima e ordinata, tutti sono rispettosi, non c´è una carta per terra o una scritta sui muri.
Facciamo un breve giro in barca per vedere la città dal mare e poi visitiamo il Museum of Islamic Art situato in un moderno e avveniristico edifico costruito sul mare. I reperti sono esposti in teche sapientemente illuminate in modo da esaltare le decorazioni degli oggetti; la modernità dell´esterno è in netto contrasto con le antichità esposte nelle teche. Troviamo particolarmente interessante la parte dedicata ai codici miniati. All´uscita è buio e possiamo ammirare lo skyline illuminato che si riflette sulle acque del mare.
Verso sera raggiungiamo l´aeroporto per prendere il volo per Yangon.
L´aereo è pieno di turisti russi, la coppia seduta accanto a me inizia a bere all´inizio del volo e termina quando siamo quasi arrivati a destinazione.
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L'arrivo a Yangon, la ex capitale Rangoon. Cosa vedere?
Arriviamo a Yangon all'alba. Vorremmo andare subito in hotel per riposare un po' ma la camera sarà disponibile solo dopo le ore 14. Decidiamo quindi di visitare subito la città.
Due cose ci colpiscono subito: il traffico e l'inglese parlato dalla popolazione locale.
Il tema del traffico richiede una premessa. Le auto hanno tutte la guida a destra ma la circolazione è a destra. Questo significa che i sorpassi sono fatti alla cieca perché il guidatore non può vedere le auto che arrivano in senso opposto, nonostante si allunghino verso il finestrino in posizioni assurde. A ogni sorpasso siamo terrorizzati. La velocità rende poi tutto più complicato, le auto sfrecciano per le strade incuranti degli incroci e dei temerari pedoni. Fortunatamente in città non circolano motorini, sembra che siano stati vietati dalle autorità a causa dei numerosi incidenti.
Parlare in inglese, missione difficile
Per quanto riguarda l'inglese il primo approccio con il nostro driver è abbastanza traumatico, sarà colpa del fuso o della stanchezza ma non riusciamo a capire una parola di quello che dice e abbiamo la netta impressione che lui non capisca noi. Del resto il paese è rimasto isolato per anni a causa della dittatura e non possiamo pretendere che tutti parlino fluentemente l'inglese. In qualche modo riusciamo a farci capire e possiamo chiedergli di portarci a visitare alcune delle principali attrazioni della città.
La Sule Pagoda e la Botatung Paya
La Sule Pagoda sorge in centro, nei pressi di una rotonda molto trafficata, attraversare la strada senza semafori richiede una buona dose di coraggio e di sprezzo del pericolo. Ci togliamo scarpe e calze e entriamo nella pagoda (in Myanmar si accede ai luoghi sacri scalzi). Osserviamo i fedeli inginocchiati in preghiera davanti alle immagini sacre del Buddha, assorti mentre bisbigliano le litanie o mentre offrono doni alle immagini sacre.
Intorno alla pagoda sorgono numerosi edifici di epoca coloniale che appaiono però quasi in rovina e disabitati.
Poco distante sorge la Botataung Paya, famosa per lo stupa al cui interno si trova una sorta di labirinto di specchi e oro. Le pareti sono formate da teche in vetro dove sono custodite reliquie sacre. A ogni angolo vediamo fedeli inginocchiati a terra che pregano e lasciano sul pavimento offerte di fiori colorati.
Visitiamo poi Chaukhtatgyi Paya al cui interno è custodito un gigantesco Budda sdraiato. La costruzione non ha nulla di interessante e serve solo come protezione per la statua.
Di notevole interessante è invece il mercato coperto Sanpya Zei, dove le bancarelle sono divise per categorie merceologiche. All'interno ci sono soprattutto venditori di oro, pietre preziose e giada. Le guide turistiche ci informano che i prezzi sono particolarmente convenienti ma non osiamo comprare nulla di questo genere, non ce ne intendiamo e non vogliamo rischiare di essere truffati. Ci buttiamo quindi sui colorati sarong e sulle piccole statue in legno di Buddha.
La Botataung Paya è famosa per lo stupa al cui interno si trova un labirinto di specchi e oro
La Shwedagon Paya, i fedeli e il profumo di sandalo
La maggiore attrazione di Yangon è la Shwedagon Paya, una grande pagoda dorata alta circa 98 metri. Considerata uno degli edifici più sacri del Myanmar sorge su una collina all'interno della città e domina Yangon. Lungo la scala di accesso alla pagoda si trovano numerose botteghe che vendono principalmente oggetti sacri, fra cui bellissime statuine di Buddha in profumato legno di sandalo. Non mancano anche rosari, statue di altre divinità, mazzi di fiori, ghirlande e decorazioni da portare in offerta. All'interno sono conservate le reliquie di quattro diversi Buddha; attorno al grande stupa centrale sorgono altri stupa più piccoli e statue sacre, nonché "cappelle" votive e immagini sacre. Ad ogni angolo e davanti a ogni immagine ci sono fedeli raccolti in preghiera o intenti a portare offerte.
Facciamo poi un giro a Chinatown, molto caotica e rumorosa. Siamo così stanchi dal viaggio che decidiamo di cenare subito anche se sono solo le 6 del pomeriggio. Ci fermiamo in un "ristorante" di strada, un tavolo e due sedie di plastica lungo il marciapiede dove, ammorbati dai gas di scarico delle numerose auto, assaporiamo i piatti cucinati al momento su una cucina portatile lì accanto. Non sarà il massimo dal punto di vista igienico ma il cibo è buono e fortunatamente non ha avuto alcun effetto collaterale.
Al primo impatto la città non sembra particolarmente sporca, ha solo l'aria trascurata, alcuni palazzi di stile coloniale sono purtroppo praticamente in rovina e lasciati andare all'incuria. Ciò che però più mi disturba sono le continue sputate degli abitanti: tutti masticano il betel e sputano a terra in continuazione lasciando orrende macchie rossastre dappertutto. È orribile, non riesco ad abituarmi.
Quasi tutti gli uomini indossano il tradizionale longyi, un sarong cucito come una lunga gonna e annodato in vita, abbinato a una camicia bianca immacolata con maniche lunghe arrotolate. Completano il look infradito di velluto nere e cappelli di paglia a cono. Il risultato è elegantissimo e super chic. Non si può dire lo stesso di alcuni turisti grassocci che tentano di imitarli, ma ahimé senza la stessa classe.
Anche le donne indossano quasi tutte il longyi, molto più colorato e con fantasie elaborate rispetto a quello degli uomini. Sul viso hanno dei segni circolari giallognoli: è la thanaka, un cosmetico naturale ottenuto dalla corteccia sminuzzata di alcuni alberi. Mescolata con acqua forma una crema che viene spalmata con movimenti circolari sulle guance e sul naso senza farla assorbire. È molto diffusa ed è considerata un elemento di bellezza, oltre a proteggere la pelle dal sole.
Betel, longyi e thanaka ci accompagnano in ogni momento della giornata
Partiamo presto per Kyaiktiyo per visitare il sito dove si trova il Golden Rock. Siamo imbottigliati nel traffico cittadino dell'ora di punta; dai finestrini dell'auto assistiamo alle manovre dei guidatori birmani e agli azzardi delle svolte a sinistra e dei sorpassi. Non appena lasciamo la città incontriamo numerosi motorini e biciclette, vietati nelle strade urbane. E la circolazione si fa ancora più complicata...
Motorini e bici tengono la sinistra, i camion più lenti si posizionano al centro della carreggiata mentre le auto più veloci sfrecciano sulla corsia di destra. Insomma è una gran confusione e mi sembra di capire che ognuno circoli dove gli pare. Lungo il tragitto facciamo una sosta a Taukkyan per visitare il cimitero dei caduti dell'esercito inglese durante la seconda guerra mondiale. Il giardino fiorito è un luogo di pace e serenità estremamente curato.
Mentre l'auto viaggia possiamo ammirare la campagna circostante fatta di campi coltivati a melone, patate e risaie, dove qua e là sorgono alcune capanne a palafitta. Osserviamo il faticoso lavoro dei contadini, tutto è fatto a mano o con l'aiuto dei buoi per arare le zolle.
Il nostro driver si ferma presso un villaggio dove visitiamo la fabbrica artigianale di vasellame e osserviamo la famiglia al lavoro mentre produce orci e giare. Poco distante dalla loro capanna le artigiane prendono l'argilla da plasmare nella forma voluta. È un lavoro lunghissimo e di precisione, tutto fatto a mano dalle donne. Devono essere molto poveri perché l'autista dà loro dei soldi, credendo di non essere visto.
Arriviamo a Kyaiktiyo verso mezzogiorno. Dalla cittadina dobbiamo proseguire in camion fino a Yatetaung, da cui parte la salita fino al Golden Rock. I camion hanno il cassone aperto e sono attrezzati per il trasporto delle persone con scomodi sedili di metallo; esistono anche alcuni posti in piedi ricavati da predellini sul retro del cassone. Per maggiore "sicurezza" sono state fissate delle sbarre che arrivano circa a metà schiena dei passeggeri in piedi in modo da non cadere durante la marcia.
Il truck parte solo quando è pieno, o meglio, strapieno. Dobbiamo quindi attendere che arrivino altri passeggeri. Per fortuna la fermata si trova sotto una grande tettoia che ripara dal sole cocente. Il caldo si fa comunque sentire. Finalmente il camion è al completo, si parte. Siamo seduti pigiati sui sedili di metallo e le sbarre delle panche iniziano già a martoriarmi le chiappe; sono così pigiata che non posso più muovere le braccia, riesco a malapena a stendere il braccio sinistro per attaccarmi alla sbarra del cassone. Rimarrò in questa posizione per tutta la durata del viaggio.
Adri non trova posto sulle panche e nonostante il parere contrario di alcuni passeggeri birmani si sistema nei posti in piedi dietro nella gabbia. Non appena il camion parte capiamo perché abbiano cercato di dissuaderlo.
Insieme a noi ci sono sia pellegrini locali che turisti, fra cui una numerosa e chiassosa comitiva coreana. Una donna per ripararsi dal sole cerca di aprire l'ombrello le cui punte si conficcano subito negli occhi e nella carne dei passeggeri vicini (tra cui io). Il camion parte e inizia a salire lungo la strada ripida e sconnessa. L'autista ha una guida gagliarda e pigia sull'acceleratore incurante delle curve strette e delle buche a terra. Di conseguenza siamo continuamente sballottati a destra e sinistra, l'asfalto è in pessime condizioni e a ogni buca saltiamo sugli scomodi sedili. Fortunatamente sono riuscita ad attaccarmi altrimenti sarei già stata sbalzata fuori. Adriano sbatte così tanto contro la sbarra che a sera avrà il fondoschiena pieno di lividi.
La strada sale ed è così ripida che inizio ad avere paura, al primo tornante sembra che il motore non ce la faccia. Anche il coreano accanto a me deve avere paura perché come tutti gli orientali in queste situazioni inizia a ridere istericamente. Mi faccio contagiare e inizio anch'io a ridere come una pazza, ci influenziamo a vicenda e ridiamo istericamente per tutto il tragitto come due pazzi. La strada è molto ripida e stretta e la situazione diventa veramente complicata quando incrociamo i camion che scendono a tutta velocità. Per fortuna il tragitto dura solo una mezzoretta. Arrivati a Yatetaung proseguiamo a piedi lungo una strada sterrata in salita. È abbastanza faticoso perché fa molto caldo e il tragitto è tutto sotto il sole.
La salita può essere fatta anche in portantina. Ogni portantina è sorretta da quattro ragazzi che con passo coordinato e ritmato salgono rapidamente. I giovani hanno le facce stravolte dalla fatica e sudano abbondantemente tanto che a metà strada sono costretti a fermarsi per bere e per riprendere fiato. Mentre i portantini faticano i turisti stanno comodamente sdraiati. Alcuni leggono, altri sonnecchiano. Noi ovviamente saliamo a piedi.
Arrivati in cima acquistiamo i biglietti d'ingresso. Non riusciamo a capire se l'ultimo truck parte alle 18 o alle 19, ogni persona a cui chiediamo ci dice un orario diverso.
La gioiosa atmosfera del Golden Rock.
Ci togliamo scarpe e calze ed entriamo nel santuario di Golden Rock, uno dei siti più sacri e meta di pellegrinaggio del Myanmar. L'atmosfera è gioiosa e allegra, numerosi pellegrini sono accampati con le loro famiglie all'interno del sito. Tende o bivacchi improvvisati ospitano i visitatori birmani che qui pregano, cucinano, chiacchierano e giocano in una grande e ordinata festa religiosa. Sono tantissimi e si sono piazzati ovunque, alcuni anche sui tetti degli edifici. A mano a mano che ci si avvicina al luogo sacro l'atmosfera diventa più solenne e mistica, i fedeli sono raccolti in preghiera e in meditazione davanti alla roccia. La "Rock" è un masso dorato alto circa 20 metri in equilibrio sullo sperone della montagna. Secondo la tradizione religiosa la roccia è tenuta da un capello del Buddha ma in realtà non c'è una spiegazione scientifica di questo fenomeno. C'è chi addirittura racconta di aver visto oscillare la roccia durante i terremoti (abbastanza frequenti in questa zona) senza che The Rock sia mai caduta.
Solo gli uomini possono avvicinarsi al Golden Rock e applicare le foglie d'oro come segno di devozione. Incarico Adriano di portare in dono la mia foglia e lasciamo un rosario in offerta. Nel frattempo numerosi altoparlanti diffondono incessantemente una litania recitata da un monaco che fa da sottofondo costante alla nostra visita. Gironzoliamo in mezzo ai bivacchi dei fedeli. La presenza è un po' chiassosa ma sono tutti molto rispettosi della sacralità del luogo.
Adri vuole fermarsi fino al tramonto per fare le foto, aspettiamo quindi che venga buio e poi di corsa ci scaracolliamo giù dalla discesa per arrivare in tempo a prendere l'ultimo truck.
La discesa mi sembra meno paurosa della salita. Forse con il favore delle tenebre non vedo la pendenza o forse sono solo distratta dal magnifico spettacolo delle stelle. Dormiamo al Golden Sunrise Hotel, in uno degli spaziosi bungalow immersi nel verde di un giardino curatissimo. Al ristorante dell'hotel siamo gli unici ospiti e il personale fa di tutto per accontentare ogni nostro desiderio. Il problema come al solito è farsi capire.
La Shwemawdaw Paya, Palazzo Reale e Kyaik Pun Paya
Una musica altissima diffusa da altoparlanti gracchianti ci sveglia quando fuori è ancora buio, non riusciamo a capire cosa stia succedendo ma ormai il sonno è andato. Mistero svelato non appena lasciamo l'hotel: sulla strada all'entrata del paese si trova un baracchino di raccolta fondi, a ogni auto o motorino che transita chiedono una donazione cantando una litania distorta dalle casse. Lungo la strada ne abbiamo incontrati parecchi, raccolgono i fondi per la costruzione della pagoda. Lo scopo è sicuramente lodevole ma l'orario è quantomeno discutibile.
Partiamo presto per rientrare a Yangon, verso sera abbiamo il pullman che ci porterà a Bagan dove arriveremo nelle prime ore del mattino. Festeggeremo l'arrivo del nuovo anno in viaggio.
Lungo il tragitto ci fermiamo a Bago per visitare la Shwemawdaw Paya, la più alta pagoda del Myanmar (lo stupa dorato misura 98 metri di altezza). Paghiamo il biglietto d'ingresso che consente l'accesso anche ad altri siti archeologici e la camera fee, una tassa sulla macchina fotografica. Molti siti in Myanmar obbligano i turisti a pagare una tassa per ogni macchina fotografica introdotta e utilizzata nel sito.
Il mudra è un gesto simbolico caratterizzato da una particolare posizione delle mani ed è utilizzato per ottenere particolari benefici energetici e spirituali
Visitiamo poi Kanbawzathadi, il palazzo reale ricostruito nel 1992 dopo un incendio, e il Shwethalyaung Buddha, un Buddha sdraiato lungo 55 metri e alto 16. Intorno alla statua ci sono molte persone, alcune pregano, altre sono praticamente accampate e mangiano mentre i bambini giocano e corrono. Infine visitiamo Kyaik Pun Paya, una statua formata da quattro giganteschi Buddha seduti in quattro differenti posizioni, ognuno con la schiena appoggiata alle altre statue che guardano nelle quattro direzioni. Ogni seduta ha un particolare significato e ogni figura ha il suo mudra specifico, la sua particolare posizione delle mani (il mudra è un gesto simbolico utilizzato per ottenere particolari benefici energetici e spirituali).
La stazione dei bus di Yangon
Pranziamo in un ristorante molto carino vicino al fiume e subito dopo ripartiamo per Yangon. Il driver ci lascia alla stazione dei bus alle ore 16:00 e il nostro pullman parte alle 19:00. Per fortuna nella sala d'attesa c'è l'aria condizionata e il WiFi, ci sediamo e aspettiamo mentre leggiamo le notizie del Corriere sull'iPad.
La sala è un'oasi di pace in mezzo a un manicomio. All'esterno tutti i bus della stazione hanno i motori accesi che emettono gas pestilenziali e riscaldano in maniera terribile l'aria. Tutto intorno una marea di gente stracarica che gira alla ricerca del proprio pullman.
Alle ore 19 puntuali veniamo fatti salire sul bus. Siamo gli unici occidentali e attiriamo gli sguardi dei nostri compagni di viaggio. Su ogni sedile c'è una pesante coperta di pile e immaginiamo possa servire per l'aria condizionata gelida. Quando vedo gli altri passeggeri indossare giacche a vento e cappelli di lana ho la certezza che sarà un viaggio difficile.
I sedili sono confortevoli e reclinabili, ci offrono acqua e bibite. Come previsto l'aria condizionata è a una temperatura glaciale e le bocchette sparano a pieno regime. Chiudo tutto subito ma invano, l'aria esce comunque. Indossiamo tutto quello che abbiamo a disposizione e ci mettiamo le coperte sulla testa ma l'aria continua inesorabile a congelarci. È insopportabile. L'unica cosa che mi viene in mente di fare è sigillare le bocchette con i cerotti e fortunatamente riusciamo ad avere un po' di sollievo.
Percorriamo una sorta di autostrada a più corsie dove gli autobus sfrecciano veloci tra le auto. Dopo qualche chilometro una musichetta e una voce annunciano la sosta all'area di servizio (o meglio, intuiamo che annunci la sosta dal fatto che tutti i passeggeri scendono dal pullman) e abbiamo una mezzoretta di tempo per andare in bagno e mangiare. Le toilette sono pulitissime, negli Autogrill italiani bagni così sono introvabili. Approfittiamo della sosta per cenare con un po' di riso e noodles. Festeggiamo qui l'ultimo giorno dell'anno tra gli sguardi increduli e divertiti dei viaggiatori locali: in tutta l'area di servizio siamo gli unici occidentali. Riprendiamo il viaggio e cerchiamo di stare svegli almeno fino alla mezzanotte così possiamo farci gli auguri. Poi, tra il russare e lo scatarrare dei compagni di viaggio, ci addormentiamo anche noi.
Alle 4 del mattino arriviamo a Bagan e veniamo scaricati in una strada buia, accanto a noi ci sono solo alcuni uomini che si offrono come taxisti. Ovviamente non abbiamo idea di dove sia il nostro hotel e decidiamo di prendere una sorta di tuk tuk per farci portare a destinazione all'hotel Aye Yar River View Resort. Alla reception c'è solo il portiere di notte, un ragazzo educato che fortunatamente parla inglese. Nonostante abbia richiesto il check-in anticipato ci informa che non hanno camere disponibili a quest'ora e dobbiamo attendere le ore 14. Sono molto contrariata ma non c'è soluzione e siamo costretti a passare quello che rimane della notte sdraiati per terra in una sala conferenze dividendola con tre birmani. Buon 2013!!!!!
I sedili sono confortevoli e reclinabili, ci offrono acqua e bibite. Come previsto l'aria condizionata è a una temperatura glaciale e le bocchette sparano a pieno regime
Giorno 1
Sono le 8:30 e sento armeggiare Adriano vicino alla mia testa, sdraiata per terra gli auguro buon anno sgusciando fuori dal mio sacco a pelo. Non facciamo nemmeno colazione e così come siamo (sporchi, stanchi e affamati) raggiungiamo il nostro driver per iniziare la visita di Bagan.
Non so come farò a resistere tutto il giorno ma la vista mozzafiato dei templi mi mette subito di buon umore e mi fa dimenticare la nottataccia. Da ogni parte si vedono spuntare all'orizzonte i pinnacoli degli stupa, sono dappertutto e sono tantissimi.
Alcuni templi sono piccoli e quasi nascosti dalla vegetazione, mentre altri sono di grandi dimensioni e svettano imponenti. Passando con l'auto riesco a vedere alcune statue di Buddha all'interno delle piccole pagode.
Iniziamo con la visita di Shwezigon Paya, una grande pagoda dorata circondata da templi più piccoli costruita su una base terrazzata. A ogni visita dobbiamo lasciare le scarpe all'entrata e in alcuni punti è un problema camminare a piedi nudi sulle mattonelle roventi. Ci sono molti turisti ma per fortuna non c'è ressa e riusciamo a visitare tranquillamente il tempio. Adriano riesce a fotografare un monaco bambino, non può avere più di 4 o 5 anni. Fa molta tenerezza perché vuole giocare e cerca di farlo con qualsiasi oggetto gli capiti fra le mani, una foglia un fiore o le immagini del Buddha.
Proseguiamo verso Sulamani Pahto, una bellissima pagoda di mattoni rossi, con una struttura diversa rispetto alle pagode dorate visitate fino ad ora. Il suo nome significa Gioiello dell'Incoronazione ed è uno dei templi più importanti di Bagan. In realtà in origine fu un complesso di edifici annessi, di cui oggi rimane solo qualche traccia. La forma è piramidale su base quadrata con due livelli di portici al cui interno ci sono tracce di splendidi affreschi e di nicchie che ospitano statue di Buddha. All'esterno ogni terrazza presenta agli angoli bellissimi stupa. Peccato che sia vietato salire sulle terrazze superiori.
Non ci stanchiamo mai di passeggiare all'interno dei corridoi dove la luce del sole che filtra dall'esterno crea interessanti chiaroscuri sulle statue.
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Visitiamo poi Ananda Pahto, un grande tempio dorato con una struttura a terrazze alto circa 50 metri. Danneggiato da un terremoto negli anni '70 fu in seguito restaurato. Il tempio è circondato da un muro con porte ad arco e divinità guardiane. All'interno si trovano quattro grandi statue di Buddha in tek dorato alte 9 metri e posizionate nei quattro punti cardinali.
Al termine della visita ai templi facciamo tappa da un artigiano di lacche che ci mostra le varie fasi della lavorazione. È un lavoro lungo e di grande precisione, oltre che di notevole talento artistico. Assistendo alle varie fasi della lavorazione capisco perché le lacche siano così care.
Il driver ci porta a pranzo in un ristorante di cucina tipica birmana. I sapori sono molto particolari, alcuni un po' troppo forti per il mio palato, tanto pesce essiccato mischiato a spezie a cui non siamo abituati. Non mi è piaciuto particolarmente.
Dopo una doccia ristoratrice (finalmente!) lasciamo subito l´hotel per il sunset cruise, il giro in barca sul fiume Ayeyarwady per ammirare il tramonto. Il fiume è grande, l'acqua è fangosa e puzzolente a causa degli scarichi sia degli hotel che delle numerose chiatte. Mentre sorseggiamo il tè comodamente seduti ci godiamo lo spettacolo del tramonto mentre sull'orizzonte rossastro si stagliano le silhouettes dei templi in lontananza.
Prima di rientrare in hotel prenotiamo il giro in mongolfiera per il giorno successivo. Purtroppo i voli all'alba sono tutti pieni (non abbiamo prenotato prima) e siamo costretti a organizzare quello del pomeriggio, anche se la luce non sarà altrettanto bella. La compagnia a cui ci siamo rivolti è la Balloons over Bagan e il costo è di circa 300$ a testa. Non vediamo l'ora di volare.
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Bagan. Giorno 2
Durante la notte Adriano sta male, probabilmente ha mangiato o bevuto qualcosa che il suo stomaco e il suo intestino non hanno gradito. Al mattino si regge in piedi a fatica e siamo preoccupati perché in queste condizioni rischia di non poter fare il volo in mongolfiera. Lo imbottisco di medicine e da vero eroe gira tutta la mattina tra i templi di Bagan.
Visitiamo Wetkyi-in-Gubyaukgy. Il nome significa tempio nella roccia, risale al XIII secolo e presenta una guglia a spirale in stile indiano. È particolarmente interessante per gli affreschi ben conservati sulle pareti interne.
Proseguiamo poi verso Htilominlo Pahto, un grande tempio al cui interno si trovano quattro grandi Buddha al primo e al secondo livello.
Thatbyinnyu Pahto, uno dei più alti templi di Bagan, è formato da tre differenti livelli di terrazze e da uno stupa a spirale che svetta bianco sopra la vegetazione. Purtroppo per preservare le decorazioni non è possibile salire ai piani superiori.
Shwegugy è un piccolo tempio con un pinnacolo a forma di pannocchia al cui interno sono custodite diverse statue di Buddha.
La pagoda che trovo più interessante è Gubyaukgyi, un tempio in stile indiano che presenta all'esterno meravigliose decorazioni in stucco. L'interno è angusto e buio ma con l'aiuto di una potente torcia riusciamo a vedere spettacolari e molto ben conservati affreschi lungo tutte le pareti.
Rientriamo in hotel per aspettare il bus della compagnia di volo in mongolfiera, ci verranno a prendere e ci porteranno in una radura da cui si partirà. Siamo super eccitati, io non vedo l'ora di volare e Adriano già pregusta il momento in cui potrà scattare migliaia di foto dall'alto.
Arriviamo agitatissimi all'area di lancio dove troviamo ad attenderci il personale di volo della compagnia già al lavoro per preparare i cesti e le mongolfiere. Siamo in tutto una trentina di turisti di varie nazionalità. I piloti stanno verificando la velocità del vento lanciando in aria alcuni palloncini e purtroppo ci informano che al momento c'è troppa aria, dobbiamo aspettare un po' perché in queste condizioni non si può decollare.
Il personale inizia comunque a informarci e a prepararci per l'eventuale volo, ci dividono in gruppi e ogni gruppo viene fatto avvicinare a un cesto, ci spiegano dove ci dobbiamo mettere, cosa possiamo e cosa non possiamo toccare, cosa non dobbiamo assolutamente fare e cosa è consentito fare. Attendiamo impazienti un'altra "analisi" del vento; a noi non sembra troppo forte ma dopo una ulteriore prova di lancio del palloncino ci informano che in queste condizioni non si può volare per ragioni di sicurezza. Siamo così delusi che ci viene quasi da piangere, avevamo desiderato così tanto questa esperienza e avevamo risparmiato apposta per potercelo permettere... Non riusciamo a crederci.
Ce ne andiamo sconsolati.
Adriano si è rimesso e si alza quando è ancora buio per raggiungere uno dei templi più alti e fare le luci al sorgere del sole. Ha noleggiato una bici in hotel e dopo varie peripezie (si è perso in mezzo ai templi che al buio sembrano tutti uguali e ha "lottato" contro un aggressivo cane randagio) è finalmente riuscito a fare le tanto desiderate fotografie con la bruma dell'alba.
Oggi visiteremo il Monte Popa, uno dei luoghi più sacri della Birmania.
Lungo il tragitto ci fermiamo a visitare una fattoria dove coltivano e lavorano la palma. Un contadino ci mostra come ricavare lo zucchero e in particolare assistiamo alla spremitura delle arachidi e del sesamo da cui si ricava l'olio.
Il Monte Popa è un vulcano e sorge a circa 50 km da Bagan, è alto 1.518 metri e sulla sua sommità sorge il monastero Taungkalat. Secondo la leggenda all'interno del tempio dimorano 37 Nat, spiriti del bene e del male rappresentati da statue che assomigliano molto a manichini colorati . Si accede al tempio scalzi salendo una scalinata di 777 gradini fiancheggiata da piccole botteghe in cui si vende un po' di tutto. Molte scimmie dispettose disturbano i pellegrini nella parte iniziale della salita attratte soprattutto dal cibo che qualche turista incautamente offre loro.
Secondo la tradizione locale durante la visita non bisogna parlare male delle persone, i nat si arrabbierebbero e potrebbero reagire provocando un periodo di sfortuna.
La salita non è faticosa e fortunatamente non fa molto caldo. Arrivati circa a metà siamo accolti da una musica assordante diffusa da enormi altoparlanti a volume altissimo. Guardiamo incuriositi e in una stanza vediamo un gruppo che suona musica tradizionale alternata a orazioni e preghiere. Ciò che più ci colpisce è la presenza di numerosi transessuali che, truccati e vestiti in modo appariscente, cantano e danzano al ritmo della musica. Ci spiegano che i transessuali sono una sorta di tramite tra gli uomini e i nat ed è assolutamente normale assistere alle loro esibizioni in questi luoghi sacri.
Una volta arrivati in cima visitiamo il complesso di monasteri. In realtà gli edifici e le stanze non sono particolarmente interessanti, è però molto bella la vista della pianura sottostante formata dai resti di un'antica foresta pietrificata.
Di ritorno a Bagan facciamo un giro con il carretto trainato dal cavallo. È molto interessante perché ci porta a visitare templi un po' fuori dai tradizionali circuiti turistici. Ammiriamo il tramonto dalla terrazza di un alto tempio e invidiamo moltissimo i passeggeri delle mongolfiere che vediamo alzarsi in volo. Questa sera non c'è un alito di vento...
Ciò che più ci colpisce è la presenza di numerosi danzatori transessuali che, truccati e vestiti in modo appariscente, cantano e ballano in trance al ritmo della musica
Oggi sveglia all'alba per prendere il volo diretto a Mandalay. L'aeroporto di Bagan è affollato di birmani stracarichi di pacchi e borse.
Tutte le procedure burocratiche di viaggio sono fatte a mano da numerosi addetti: uno saluta, un altro chiede quanti bagagli hai, un terzo prende il bagaglio da stiva e lo carica mentre un quarto consegna la carta d'imbarco. Mi sembra un buon modo per risolvere il problema della disoccupazione.
Il volo dura solo 20 minuti, l'attesa del bagaglio circa mezz'ora.
L'inglese parlato dal driver che ci attende a Mandalay è, se possibile, ancora peggio degli altri. Ci mettiamo ore a fargli capire che il suo programma è diverso da quello che abbiamo noi e che sono escluse alcune tappe. Fortunatamente dopo una serie di telefonate all'agenzia riusciamo a includere le visite che ci interessano particolarmente.
La nostra prima tappa è il monastero Mahagandayon. Sorge nei dintorni di Amarapura ed è una delle più grandi scuole monastiche del Myanmar, si tratta di una vera e propria cittadina dove possiamo assistere alla vita quotidiana dei monaci. Passiamo nelle vie davanti ai dormitori e vediamo alcuni monaci che si lavano o che si radono. Mi sento un po' a disagio perché mi rendo conto di violare la loro intimità, distolgo lo sguardo mentre si apprestano a compiere dei gesti che normalmente dovrebbero rimanere privati. Mi innervosisco quando vedo tanti turisti (compreso Adriano) che li fotografano in momenti così intimi.
Verso l'ora di pranzo assistiamo alla tradizionale processione dei centinaia di monaci che in fila si recano scalzi con i loro contenitori in legno per il cibo a consumare il pranzo nel refettorio. La ciotola è l'unica cosa che posseggono oltre alla tunica che indossano.
Davanti a noi una lunga fila di tuniche rosse. In silenzio i monaci più giovani attendono il suono delle campane prima di incamminarsi ordinatamente. Alcuni turisti asiatici lasciano ai monaci più giovani qualche piccolo dono, uno spazzolino da denti o una saponetta, una bustina di nescafé o qualche confezione di marmellata sottratta agli alberghi dove alloggiano.
È molto suggestivo e non posso fare a meno di notare il grande rispetto che ogni monaco ha nei confronti degli altri. L'unica nota fuori posto è l'invadenza di alcuni turisti che offendono la profonda religiosità dei monaci in raccoglimento, si avvicinano li toccano li fotografano quasi fossero animali in uno zoo.
Lasciato il monastero visitiamo Sagaing Hill, un centro religioso e monastico che sorge sul fiume Irrawady sopra una collina da cui si domina la valle.
Proseguiamo poi verso la Mahamuni Paya, un tempio meta di pellegrinaggio. I fedeli vengono qui da ogni parte della Birmania per adorare una grande immagine in bronzo del Buddha, alta circa 4 metri e riccamente decorata.
Per rispettare tutto il programma evitiamo di fermarci a mangiare, prendiamo al volo due merendine in una panetteria lungo la strada e poi ci imbarchiamo per Mingun. Finalmente durante la navigazione (una mezzoretta circa) riusciamo a rilassarci un po', ci godiamo il fresco e il panorama sdraiati sulle chaise long di bambù sorseggiando il tè offerto dal barcaiolo. Adri avvista alcuni delfini; mi sembra strano e all'inizio stento a crederci ma poi li vedo anch'io.
Oltre alla tunica indossata, la ciotola è l'unica cosa che i monaci posseggono.
Mingun è un piccolo villaggio che sorge sulle rive del fiume la cui attrazione principale è la famosa Pahtodawgyi Paya, una monumentale pagoda incompiuta alta circa 50 metri, un terzo dell'altezza originariamente progettata. La costruzione iniziò nel 1790 ma nel 1839 un forte terremoto aprì uno squarcio enorme nella facciata. Impossibile da riparare venne lasciata incompiuta. Nonostante sia quasi in rovina è comunque un luogo di preghiera e anche qui bisogna entrare scalzi in segno di devozione e rispetto. In realtà si può accedere solo a una piccola cappella dove si trova una statua di Buddha.
Poco distante dalla pagoda si trova la famosa Mingun Bell, una campana di circa 90 tonnellate che avrebbe dovuto essere collocata nella pagoda incompiuta. Rientrando verso la barca ci fermiamo a guardare alcuni ragazzi che giocano a chinlone, una sorta di pallavolo giocata con i piedi e con una palla di vimini intrecciato. Rimaniamo incantati ad ammirare le evoluzioni e i salti da veri acrobati dei giocatori.
Ritorniamo sulla barca per raggiungere Ubein Bridge, l'ultima tappa di questa lunga giornata. Si tratta di un ponte in tek lungo 1,2 km (è il ponte in legno più lungo del mondo) e si trova ad Amarapura, l'antica capitale del Myanmar.
Arriviamo un po' prima del tramonto e gironzoliamo sulle rive. In realtà la zona intorno non ha nulla di interessante e ci sembra molto sporca. La grande attrazione per i turisti e per la popolazione locale è il lungo ponte pedonale. È probabilmente il luogo prediletto per lo struscio serale: coppiette, famiglie, gruppi di ragazzi e ragazze, monaci passeggiano chiacchierando tra loro. Camminiamo anche noi per un tratto ma dal ponte la vista non è molto bella. Decidiamo perciò di prendere una barchetta e di farci portare in mezzo al fiume per ammirare il tramonto. L'acqua è orribile, sporchissima e capiamo subito perché: tutti fanno tutto in acqua e nonostante ciò qualcuno fa il bagno e nuota allegramente. I ristoranti che sorgono sulla riva del fiume buttano tutti i loro rifiuti in acqua e la puzza è terribile. Adriano scatta numerose fotografie del ponte dalla barca giocando con le silhouette e con i colori del tramonto.
La giornata è stata molto lunga e intensa e finalmente andiamo in albergo. Peccato non avere un giorno in più per visitare Mandalay perchè la città sembra interessante. Dormiamo al bellissimo e confortevole hotel The Hotel by the Red Canal.
Guardiamo alcuni ragazzi mentre giocano a chinlone, una sorta di pallavolo giocata con i piedi e praticata con una palla di vimini intrecciato
Sta ormai diventando una consuetudine svegliarsi all'alba per prendere un volo. Oggi si parte per Heho. Una volta atterrati ci viene a prendere la guida Kok e finalmente possiamo approfittare di qualcuno che parla bene l'inglese e lo tormentiamo di domande.
Ci troviamo nello stato Shan situato nella Birmania nord orientale vicino al confine con Cina e Thailandia. La strada che stiamo percorrendo attraversa un paesaggio bellissimo tra verdi colline, montagne e campi coltivati. L'agricoltura qui è molto fiorente e i prodotti principali sono arance, patate, aglio, lenticchie, cavolfiori e verze. La guida ci spiega che finalmente con il nuovo governo la situazione è notevolmente migliorata rispetto agli anni bui della dittatura durante la quale il popolo non aveva alcun diritto. Il nuovo governo ha redistribuito le terre ai contadini permettendo loro di coltivarle per il proprio fabbisogno e consentendo loro di vendere i prodotti in eccesso nei mercati locali. Il ricavato è una preziosa fonte di guadagno per i contadini e le loro famiglie.
L'istruzione primaria è gratuita, quella secondaria è a pagamento e lo stato versa alcuni contributi. L'unica completamente a pagamento è quella universitaria che rimane molto costosa e praticamente inaccessibile alla maggior parte dei birmani.
Ci fermiamo per fare qualche foto alle persone che lavorano nei campi, la luce è bellissima e il contrasto con i colori sgargianti dei campi o dei vestiti e di grande effetto.
Ogni tanto incrociamo bus stracarichi di donne della tribù Pah-o, riconoscibili dai turbanti arancioni.
Ci fermiamo per visitare le Pindaya Caves, grotte di pietra calcarea ritenute sacre dalla popolazione del Myanmar. Le grotte sono illuminate artificialmente e non appena varchiamo la soglia rimaniamo impressionati dallo spettacolo: all'interno si trovano più di 8000 statue di Buddha di tutte le dimensioni e materiali, alcune enormi e altre molto piccole, tutte offerte dai fedeli in segno di devozione. La grotta è un labirinto e le statue si trovano dappertutto, anche negli anfratti più nascosti.
È molto emozionante e giriamo a lungo. Io mi faccio prendere dall'entusiasmo e tocco il Buddha che traspira seguendo un preciso rituale: secondo la tradizione per far passare i dolori bisogna bagnare con l'umidità che trasuda dal Buddha le parti del corpo che fanno male. Non voglio lasciare nulla di intentato e ci provo, anche se rimango un'ora davanti a questa statua e mi bagno praticamente tutto il corpo.
All'interno della grotta più grande c'è uno spazio dedicato alla meditazione. L'accesso è così piccolo e basso che dobbiamo inginocchiarci per entrare. Anche qui le statue sono dappertutto. Rimaniamo un po' di tempo in raccoglimento e ci sembra di sentire un'energia particolarmente intensa. Forse è solo suggestione ma ci piace pensare che questo luogo sia veramente speciale.
Lasciamo la grotta e ci dirigiamo verso Pindaya, cittadina famosa per la lavorazione artigianale degli ombrelli di carta e bambù. Ci fermiamo presso un artigiano che ci mostra le varie fasi della lavorazione partendo dalla corteccia dell'albero per arrivare alla carta e ai ventagli o agli ombrelli.
Raggiungiamo infine Kalaw, una cittadina di montagna diventata recentemente molto popolare perché luogo di partenza dei trekking turistici. Qui incontriamo Sunni, la guida che ci accompagnerà durante i tre giorni di camminata tra i villaggi tradizionali. Ci spiega brevemente cosa faremo e che posti visiteremo. Adri è abbastanza deluso perchè non dormiremo in un monastero ma solo nelle case. Sunni però ci spiega che i monasteri locali non sono attrezzati per ospitare viaggiatori stranieri, mentre invece ci dice che l'esperienza presso la famiglia sarà indimenticabile. Ci fidiamo.
Kalaw è poco più di un villaggio e le case sorgono soprattutto lungo la via principale. Le guest house sono semplici e spartane ma pulite e con personale gentile e cordiale. Kalaw offre molto poco, qualche bottega e pochi locali dove poter mangiare e bere una birra. Andiamo a letto presto, dobbiamo essere in forma per il giorno successivo.
Rimaniamo impressionati dallo spettacolo: all'interno si trovano più di 8000 statue di Buddha di tutte le dimensioni e materiali, offerte dai fedeli in segno di devozione
Partiamo alle 8:30 zaini in spalla. Abbiamo lasciato il bagaglio più grande in auto e lo ritroveremo poi al lago Inle al termine del trekking. Adri come sempre porta l'attrezzatura fotografica, io invece ho stipato sacchi a pelo e un ricambio per entrambi nel mio zaino. Fa freddo e dobbiamo portare con noi anche abbigliamento pesante e questo purtroppo rende lo zaino un po' più ingombrante.
Incontriamo Sunni ad attenderci davanti all'hotel. La nostra guida è un ometto minuto molto discreto e tranquillo, sorride spesso e bisbiglia, quasi non volesse disturbare usando un tono di voce troppo alto. Ogni persona che incontriamo ci saluta con un allegro Minglaba, il tradizionale saluto birmano che è una benedizione.
Attraversiamo Kalaw passando davanti alle case dei nepalesi. Sunni ci spiega che sono i discendenti dei militari dell'esercito inglese. Inizialmente si trasferirono qui per seguire le truppe ma poi rimasero stabilmente in questa città. Camminiamo per circa un'ora su una strada sterrata dove spesso vediamo passare alcune moto. All'inizio siamo un po' delusi perchè non vorremmo andare in posti facilmente raggiungibili dalle auto o dalle moto. Il panorama comunque è bellissimo e i colori dei campi coltivati sono straordinari. Sono montagne non troppo elevate e si coltivano soprattutto arance, tè, verdure e riso.
Finalmente abbandoniamo la strada principale per prendere un sentiero che procede tra i campi e i boschi e la camminata è molto facile e gradevole. Facciamo una sosta in un punto panoramico dove sorge la fattoria-ristoro gestita da una famiglia nepalese. Mentre ammiriamo il paesaggio circostante ci gustiamo degli squisiti chapati. Ci troviamo nel villaggio Himgar Gone della tribù Palaung.
Dopo esserci rifocillati riprendiamo a camminare immersi in questa natura meravigliosa. Passiamo nei pressi di un monastero, Sunni conosce il monaco e vuole passare a salutarlo. Si fermano a parlare quasi un'ora mentre noi gironzoliamo e facciamo amicizia - a gesti - con alcuni bambini e piccoli monaci. Tutti ci chiedono sapone o shampoo ma purtroppo ho pochissime cose da dare loro perché ho ridotto al minimo il bagaglio. Sono abbastanza sporchi e mocciosi, un piccolo monaco sulla testa ha orribili piaghe e croste. Devono essere dolorosissime ma purtroppo non ho nulla da dargli per aiutarlo.
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Riprendiamo il cammino, dall'alto vediamo la ferrovia costruita durante l'occupazione degli inglesi e il piccolo treno che passa fra le montagne. Attraversiamo Kambar Ni, un villaggio abbastanza grande della tribù Danu. Ci sono solo anziani e bambini perché a quest'ora gli adulti sono tutti nei campi a lavorare. Camminiamo per un lungo tratto sulle rotaie e incontriamo molti contadini che fanno il nostro stesso percorso. Durante la camminata attraversiamo anche un paio di tunnel abbastanza lunghi e stretti.
A un certo punto sentiamo suonare: è il treno che fortunatamente arranca, abbiamo quindi tutto il tempo per scansarci. Salutiamo i passeggeri affacciati ai finestrini, probabilmente contadini che abitano nei villaggi vicini e che si sono spostati per andare al mercato a vendere i loro prodotti.
Durante il cammino Sunni prende una storta alla caviglia. Rimane un momento fermo a occhi chiusi in completo raccoglimento, poi inizia a respirare profondamente, apre gli occhi e si passa la mano più volte a sfiorare la caviglia. Lo guardiamo curiosi, lui paziente ci spiega che riesce a far passare il dolore raccogliendo le energie e concentrandole sulla parte malata. Ci racconta che pratica arti marziali shaolin e attraverso il controllo del corpo e la meditazione riesce a sfruttare la sua energia per curare i dolori delle persone. Afferma di avere curato molti suoi amici nonché alcuni turisti che hanno fatto trekking con lui. È un po' bizzarro ma è un personaggio interessante e lo ascoltiamo affascinati. Vede che indosso una fascia tutore sul ginocchio che uso quando cammino tanto e promette di curarmi quando arriveremo al villaggio. Proseguiamo e Sunni mantiene un'andatura spedita senza mostrare segni di cedimento. Forse si è veramente guarito da solo.
Il sentiero è in piano e la passeggiata è molto piacevole, passiamo attraverso boschi di bambù e campi dove i contadini sono al lavoro. Da lontano i contadini sono piccole macchie colorate che si stagliano sul verde delle coltivazioni.
Sunni, la guida, pratica arti marziali shaolin e attraverso il controllo del corpo e la meditazione riesce a sfruttare la sua energia per curare i dolori delle persone
L'arrivo al villaggio dei Danu
Nel primo pomeriggio arriviamo al villaggio dove passeremo la notte. Siamo a Myin Dike e saremo ospiti a casa del signor Soe Aung della tribù Danu. I nostri ospiti abitano in una grande casa di legno a palafitta. Entriamo in uno stanzone e siamo accolti dal padrone di casa. Di fronte all'entrata sorge l'altare della preghiera, a lato oltre una porta si trova la cucina. Alle pareti della stanza principale sono appese pagine di giornale con foto di calciatori e di modelle birmane con abiti alla moda. Il nostro ospite ci saluta cordialmente e ci offre tè e dolci fatti con zucchero di palma. L'atmosfera è calda e accogliente e ci sentiamo subito a nostro agio anche se non parliamo la stessa lingua e possiamo comunicare solo con l'aiuto di Sunni. La nostra guida è quasi parte della famiglia dopo i numerosi trekking fatti in questo villaggio.
Sunni decide di curarmi il ginocchio: si concentra qualche minuto davanti all'altare dove prega, infine si avvicina e a occhi chiusi passa ripetutamente la mano sopra il mio ginocchio, lo sfiora muovendo alternativamente la mano e le dita. Adri assiste curioso, io mi rilasso e ricevo la cura offerta da questa guida decisamente poco convenzionale. Non sento niente di particolare ma vedremo durante la camminata di domani se qualcosa sarà migliorato.
Al termine della cura usciamo per girare un po' per il villaggio. Il centro abitato sorge su una collina vicino ai campi coltivati, le case sono tutte molto grandi e a più piani costruite in legno e bambù. Tutte le persone che incontriamo ci salutano sorridendo. Adri approfitta delle ultime ore di luce per fare le fotografie.
Dopo il tramonto rientriamo in casa e ne approfittiamo per fare una "doccia". Ovviamente non esiste un bagno, la toilette è una latrina in legno poco distante dalla casa. La doccia è una cabina di legno al cui interno si trova una cisterna di cemento. Dalla cisterna prendiamo l'acqua con una ciotola e ce la buttiamo addosso. Il sole è ormai tramontato e inizia a fare freddo.
Al nostro rientro incontriamo la padrona di casa e i due giovani figli, un ragazzo e una ragazza. Parlano un po' di inglese e riusciamo a scambiare qualche parola con loro. In cucina fervono i preparativi per la cena e la mamma ha reclutato tutta la famiglia per collaborare all'organizzazione. Siamo curiosi e chiediamo di poter assistere. Nel pavimento in legno della cucina si trova una conca in cui è sistemata la brace ardente, sopra sono posizionate le pentole per cuocere il cibo. Sunni alimenta il fuoco con una cannuccia di bambù, soffiando di tanto in tanto per ravvivare la fiamma. Il fumo è terribile, non c'è alcun ricambio d'aria e ristagna tutto all'interno. Facciamo fatica a respirare e iniziamo a piangere scatenando l'ilarità dei giovani figli: ci prendono in giro perché dicono che abbiamo nostalgia della mamma. I figli e il marito tagliano e sminuzzano le verdure che vengono poi buttate nella padella con l'olio bollente. Il profumo è ottimo.
I nostri ospiti abitano in una grande casa di legno a palafitta. Di fronte all'entrata sorge l'altare della preghiera, alle pareti della stanza principale sono appese pagine di giornale con foto di calciatori e di modelle birmane con abiti alla moda.
La cena è servita per noi nella stanza principale, seduti a tavola; ci sentiamo un po' a disagio perché la famiglia e Sunni rimangono invece a mangiare in cucina seduti a terra a gambe piegate. Facciamo capire che ci piacerebbe raggiungerli e mangiare con loro ma preferiscono di no, hanno preparato apposta per noi a tavola per farci stare comodamente seduti.
Il cibo è ottimo ma decisamente troppo abbondante per noi due soli. Non riusciamo a mangiare tutto quello che ci hanno preparato. Dopo cena chiacchieriamo un po' con Sunni. Ci spiega la sua pratica di arti marziali e di meditazione, fa un po' il predicatore e ci dà alcuni consigli. Lo ascoltiamo con attenzione e l'atmosfera diventa subito molto interessante: parlare di meditazione e di energia in questo ambiente rende tutto più suggestivo e quasi mistico. Mentre chiacchieriamo la signora si inginocchia davanti all'altare e inizia a pregare incurante della nostra presenza; la sentiamo bisbigliare e la vediamo sgranare il rosario durante la sua preghiera.
Il padrone di casa ha preparato per noi i letti, tre stuoie appoggiate sul pavimento con uno spesso strato di coperte. Fa freddissimo e attraverso gli spifferi delle assi di legno entra un'umidità terribile. Ci corichiamo vestiti di tutto punto e ci addormentiamo quasi subito.
Alcuni rumori e tramestii mi svegliano durante la notte, non so che ora sia ma vedo che è ancora buio. Scoprirò più tardi che si tratta della padrona di casa che si è svegliata presto per cucinare la colazione per noi. Esco per andare al bagno e lo spettacolo delle stelle è fantastico, il cielo sembra completamente illuminato.
Ci svegliamo molto presto e fa talmente freddo che non vorrei uscire dalle coperte. All'aperto se possibile fa ancora più freddo e dobbiamo lavarci con l'acqua ghiacciata della tinozza. In questi momenti rimpiango le comodità cui sono abituata.
Rientriamo in casa e sentiamo provenire dalla cucina lo sfrigolare della frittura. Chissà cosa ci stanno preparando, dai rumori mi aspetto una quantità esagerata di cibo. A turno si svegliano tutti e pian piano entrano nella stanza per pregare davanti all'altare. Sono tutti molto cortesi e ci chiedono come abbiamo passato la notte. Poi arriva la colazione: riso nero con verdure, riso fritto, zucca bollita e verdure fritte. Assaggiamo un po' di tutto ma anche questa mattina non riusciamo a finire tutto il cibo che ci hanno portato.
È arrivato il momento dei saluti, ringraziamo la famiglia che ci ha gentilmente ospitato, salutiamo con calore i figli e i genitori, tutti ci augurano buona salute e buona fortuna e sperano di rivederci presto. Rispondiamo anche noi ai loro auguri e alla loro speranza anche se sappiamo che difficilmente ci rivedremo ancora. Prima di partire lasciamo un'offerta al padrone di casa, Sunni ci ha spiegato che è malato e speriamo che con questi soldi possa pagarsi la visita in ospedale.
Ci allontaniamo un po' tristi e commossi.
Camminiamo ancora per un tratto lungo la ferrovia e ci fermiamo per fare una pausa al bar della stazione di Lut Pyin. Abbiamo camminato pochissimo e ho l'impressione che Sunni si fermi solo per chiacchierare un po' con i suoi amici con il pretesto di farci fare una sosta. Ogni tanto dobbiamo sollecitarlo a riprendere il cammino.
La passeggiata è facile e ammiriamo il panorama che ci circonda. Per il momento il ginocchio non mi fa male, che abbia veramente fatto effetto la cura alternativa di Sunni? Facciamo la sosta per il pranzo a Myin Mahti, un villaggio affollato di pellegrini in visita a una grotta sacra al cui interno si trovano numerose statue di Buddha. Seduti al "ristorante" (una baracca di legno con alcune panche) chiacchieriamo un po' con i fedeli. Sono tutti curiosi, vogliono sapere da dove veniamo, che posti abbiamo visitato finora e quale sarà la nostra prossima tappa.
Facciamo la sosta per il pranzo a Myin Mahti, un villaggio affollato di pellegrini in visita a una grotta sacra. Seduti al "ristorante" chiacchieriamo un po' con i fedeli. Sono tutti incuriositi dalla nostra presenza
Sunni suggerisce di fare il successivo tratto di strada con un autobus locale. Ci sembra una buona idea così possiamo sperimentare il tradizionale mezzo pubblico birmano. Sunni si butta in mezzo alla strada e ne ferma uno già stracarico. La parte del cassone al coperto è riservata alle donne perché è considerata la più comoda. Gli uomini invece salgono sul tetto oppure rimangono in piedi sui predellini esterni.
Mi isso sul cassone e sono costretta ad adagiarmi su un carico di patate,. Cerco di mettermi a sedere ma sbatto in continuazione la testa sul tetto perciò rimango praticamente sdraiata con lo zaino che mi fa da schienale.
Adri e Sunni salgono sul tetto. A ogni buca (e sono molte) sobbalziamo e come al solito non riesco a smettere di ridere. Scendiamo a Nan Tin, un villaggio Pa-Oh. Io sono completamente rintronata dalle testate prese contro il tetto, mentre Adri ha il sedere pieno di lividi, oltre a essere impolverato dalla testa ai piedi.
Riprendiamo la camminata tra i campi e i contadini che lavorano. Attraversiamo una zona coltivata con peperoncini rossi e la calda luce del tramonto crea una macchia di colore che si staglia sulla terra a perdita d'occhio.
Percorriamo un tratto di strada insieme ai contadini che lasciano i campi dopo la giornata di lavoro. Il sole sta calando e sono gli ultimi momenti di luce prima che arrivi il buio. Incrociamo carretti tirati dai buoi su cui siedono le mamme con i loro bambini portati nei fagotti sulle spalle e uomini che camminano trasportando gli attrezzi di lavoro. Le donne indossano tutte turbanti di lana di colore rosso scuro, tipici della tribù Pa-Oh.
La luce è straordinaria e Adri riesce a fare delle foto bellissime.
Arriviamo al villaggio Pattu Bauk dove passeremo la notte. Alloggiamo in una sorta di bivacco, una bella costruzione in legno dove si trovano alcune camerate per gli ospiti. Condividiamo lo spazio con alcune ragazze coreane. Anche qui non esistono toilette o bagni all'interno della casa, la latrina e le "docce" si trovano all'aperto. Facciamo la doccia subito, prima che diventi troppo freddo.
Ceniamo insieme a Sunni e passiamo parte della serata chiacchierando un po' con lui. Nei suoi modi educati e rispettosi ci spiega il cammino che sta percorrendo lungo la via dell'illuminazione. Ci fa capire che non è più solo un uomo normale ma è già diventato qualcosa di diverso, ha raggiunto una consapevolezza che lo ha elevato un po' nel suo percorso.
Attraversiamo una zona coltivata con peperoncini rossi e la calda luce del tramonto crea una macchia di colore incredibile
Sveglia molto presto e anche qui fa molto freddo. Lavarsi con l'acqua gelida di primo mattino è una sferzata di energia! Oggi cammineremo per l'ultimo tratto, circa 4 ore, fino al lago Inle.
Partiamo salendo su una collina ancora avvolta nella bruma del mattino, i contorni si intravedono appena e tutto appare un po' sfocato. Il sole sta sorgendo e piano piano la foschia lascia il posto ai colori del cielo e dei campi, arrivati in cima il sole è alto e la nebbia definitivamente sparita e possiamo ammirare il panorama della valle. Ora la temperatura è salita e fa decisamente caldo. Ci incamminiamo lungo il sentiero in discesa attraverso campi e boschetti dove troviamo un po' di sollievo all'ombra delle piante.
Attraversiamo alcuni piccoli villaggi (Kyauk Su e Nan York) di etnia Pa-Oh. La camminata è molto piacevole e rilassante e dopo qualche ora arriviamo a destinazione, una sorta di chiosco in una radura dove abbiamo appuntamento con la guida che ci condurrà al lago. Fatte le presentazioni ci incamminiamo lungo una lingua di terra rossa in mezzo all'acqua tra risaie e colture idroponiche. Intorno sorgono le case a palafitta dei contadini del villaggio Tone Lae dell'etnia Inn Thar.
Saliamo sulla lunga piroga a motore e partiamo alla scoperta del lago. L'imbarcazione si inoltra in un dedalo di canali sulle cui rive sorgono coltivazioni di pomodori. La guida ci spiega che il terreno è galleggiante, si tratta di zolle che fluttuano sull'acqua e che si spostano a seconda delle correnti e delle maree. I contadini lavorano accovacciati sulle loro imbarcazioni avvicinandosi alle diverse zolle. È incredibile vedere l'abilità con cui riescono a stare in equilibrio sulle strette e lunghe piroghe. Le abitazioni sono costruite con legno e bambù intrecciato e sono tutte a palafitta; gli edifici sono collegati fra loro da ponti di bambù.
Il lago Inle è molto grande, circa 22 km di lunghezza e 11 km di larghezza. Sulle rive sorgono numerosi villaggi abitati dall'etnia Inn Tha. Entriamo con la piroga in un villaggio e visitiamo alcuni artigiani che lavorano argento, cotone o il filato ricavato dal loto. Siamo sbalorditi dai prezzi: una sciarpina di loto (che all'aspetto sembra un cotone molto grezzo) costa 300 dollari!
Pranziamo in un ristorante a palafitta e non appena mi siedo ho la netta impressione di ondeggiare al ritmo delle onde e in effetti ci confermano che la palafitte un po' si muovono seguendo il moto delle acque.
Visitiamo la pagoda Phaung Daw Oo al cui interno sono custodite 5 piccole statue di Buddha ormai irriconoscibili. Durante gli anni sono state coperte da così tante foglioline d'oro da aver ormai completamente perso la sagoma originale. All'esterno della pagoda alcuni artigiani vendono piccole statue di legno, collane e oggetti votivi. Acquistiamo alcune statue e una bella maschera di ottone per la collezione di Adriano.
I contadini lavorano accovacciati sulle loro imbarcazioni avvicinandosi alle diverse zolle. È incredibile vedere l'abilità con cui riescono a stare in equilibrio sulle piroghe.
Riprendiamo la piroga e navighiamo tra i canali dove sorgono le colture idroponiche per raggiungere Nga Phe Kyaung, un monastero in tek della metà del '700. Fino a poco tempo fa il monastero era famoso per lo spettacolo dei gatti addestrati dai monaci a saltare dentro i cerchi. Il capo spirituale si è però reso conto che i visitatori erano più attratti dai gatti che dalla spiritualità del luogo e ha perciò vietato ogni spettacolo. I gatti continuano però a vivere qui e a girare indisturbati fra i turisti.
Prima di andare in hotel ci fermiamo a osservare gli abili pescatori del lago Inle. Hanno un sistema di pesca molto particolare che sfrutta una remata fatta con le gambe. Per avere le mani libere i pescatori sono in piedi in bilico sulla punta della piroga, la gamba avvolge il remo mentre abilmente gettano le reti in acqua; poi con un movimento che coinvolge anca gamba e piede danno una potente spinta e la barca scivola sull'acqua. Con grande destrezza ed eleganza di movimenti riescono a maneggiare le pesanti reti o le nasse rimanendo in equilibrio su un piede solo. È il momento perfetto per fare le foto, il sole sta tramontando e le silhouette si stagliano contro il sole.
Finalmente arriviamo in hotel, è stata una giornata molto lunga e abbiamo bisogno di riposo. Alloggiamo al Paradise Inle Resort, una grande struttura a palafitta che sorge sull'acqua. All'arrivo siamo accolti da una band locale che suona per noi una musica tradizionale.
Purtroppo è anche giunto il momento di salutare Sunni, è ancora con noi e ci ha seguito ad ogni tappa, sorridendo e parlando con tutti quelli che abbiamo incontrato, come un vero predicatore. Salutiamo con calore questo ometto così discreto e un po' bizzarro.
Gli abili pescatori del lago Inle hanno un sistema di pesca molto particolare che sfrutta una remata fatta con le gambe
Sveglia all´alba, abbiamo appuntamento alle 6:30 con il barcaiolo che ci porterà sulla terraferma dove un driver ci condurrà all'aeroporto di Heho.
Fa un freddo terribile, ci avvolgiamo nelle coperte e indossiamo il berretto di lana ma l'umidità penetra comunque nelle ossa. Soffriamo un po' ma siamo ripagati dalla vista di un paesaggio straordinario. Il lago è ancora avvolto nella nebbia del mattino: a poco a poco la natura si sveglia, gli uccelli si alzano in volo al nostro passaggio e si inseguono cinguettando nell'aria. Non appena la nebbia si dissolve un poco possiamo scorgere i pescatori già al lavoro.
Arriviamo all'aeroporto con grande anticipo, la nostra guida ha sbagliato a comunicarci l'orario del volo e perciò siamo costretti ad attendere.
Il volo procede tranquillamente e atterriamo a Ngapali che il sole è già alto. Durante il tragitto verso l'hotel abbiamo modo di osservare la vegetazione rigogliosa ai lati delle strade. Alloggiamo all'hotel Pleasant View Resort, una bella struttura elegante sulla spiaggia privata attrezzata con lettini di legno e ombrelloni di paglia. Peccato che non abbiamo la camera vista mare :(
Andiamo subito in spiaggia ma purtroppo c'è molto vento e non riusciamo a rimanere sdraiati sui lettini. Non fa caldissimo e stare in costume è un po' un azzardo. Facciamo allora una passeggiata sulla spiaggia di sabbia fine lunga quasi 10km. Nascosti dalle palme e dalla vegetazione sorgono numerosi resort, tutti molto eleganti e discreti, qua e là ci sono i baracchini dei bar/ristoranti che offrono piatti a base di pesce fresco o alcuni banchetti di souvenir e prodotti artigianali. Ci fermiamo in uno di questi ristoranti dove mangiamo un ottimo pesce alla griglia e beviamo due meravigliosi cocktail preparati nella noce di cocco. La giornata passa in totale relax, tra una bevuta di fronte al mare, una passeggiata sulla spiaggia e un massaggio.
Ceniamo in un ristorante sulla via principale (Two Brothers), ottimo pesce anche qui.
Nascosti dalle palme e dalla vegetazione sorgono numerosi resort, tutti molto eleganti e discreti
Ngapali, tra la spiaggia e il mercato
Facciamo colazione nel ristorante dell'hotel sulla spiaggia ma fa ancora molto freddo. Finché il sole non è alto la temperatura rimane abbastanza rigida. Per il momento è impossibile stare in spiaggia, decidiamo quindi di fare un giro nell'entroterra per cercare le borse di plastica colorata che le donne birmane usano per fare la spesa.
Ci hanno detto che oggi c'è un mercato al villaggio Tandweve dove possiamo trovarle. Per raggiungere il villaggio prendiamo un tuk tuk ma il mezzo è lentissimo e ci mettiamo un sacco di tempo. La strada è effettivamente mal ridotta e piena di buche ma il nostro driver è una lumaca, non capiamo perché vada così piano...
Dopo un tragitto interminabile arriviamo finalmente al mercato. Anche qui siamo gli unici occidentali e inevitabilmente attiriamo gli sguardi curiosi della gente. Giriamo un po' tra le bancarelle, immersi in colori e odori molto forti. Vendono di tutto tranne le borsine colorate che stiamo cercando.
Vorremmo chiedere qualche informazione alle donne delle bancarelle ma non riusciamo a farci capire, quando vediamo una borsa facciamo dei gesti e la indichiamo cercando di farci capire. A volte funziona ma a volte attiriamo solo gli sguardi un po' perplessi dei nostri interlocutori.
Adriano si è messo in testa di comprarla e non si darà pace finché non la troveremo. Chiede a tutti: bottegai, poliziotti, driver dei tuk tuk... ma nessuno parla inglese. Cerchiamo di interpretare i loro gesti e di seguire le loro indicazioni ma delle borse nessuna traccia. Poi finalmente abbiamo la fortuna di chiedere a un barbiere che parla un po' di inglese e capisce cosa stiamo cercando. Smette di tagliare i capelli e ci accompagna davanti al negozio dove le vendono mentre il suo cliente viene momentaneamente abbandonato nella bottega. E finalmente eccole, sono proprio quelle che stiamo cercando. Ne compriamo 3 a 5 euro!
La missione è stata portata a termine con successo, possiamo quindi tornare a Ngapali soddisfatti e andare a rilassarci in spiaggia. Nel frattempo il sole ha anche scaldato la sabbia e si sta benissimo.
Dopo una lunga passeggiata ci concediamo un bagno vicino agli scogli dove sulla battigia ci sono solo granchi rossi. Pranziamo ancora nel ristorante del giorno prima dove gustiamo un ottimo tonno alla griglia seduti davanti al mare. Di sera ceniamo in un ristorante sulla spiaggia e l'alta marea ogni tanto ci costringe ad alzare i piedi per non bagnarci.
Dopo un tragitto interminabile arriviamo al mercato. Anche qui siamo gli unici occidentali e attiriamo gli sguardi curiosi della gente
I pescatori di Ngapali
Ultimo giorno a Ngapali. Visitiamo la parte di spiaggia più autentica dove vivono i pescatori locali con le loro famiglie. A riva sono "parcheggiate" le imbarcazioni da cui i pescatori scaricano il pesce. Le donne trasportano sulla battigia le grandi ceste con il loro carico di pescato, lavano il pesce e poi lo depositano su grandi teli per farlo essiccare al sole. Con il caldo la puzza è molto forte e quasi insopportabile.
Dove inizia la vegetazione sorgono le capanne dei pescatori e la vita di tutte le famiglie si svolge in spiaggia e in riva al mare. Le tracce lasciate sono inequivocabili: giochi, stoviglie, resti di cibo, resti di bisogni, immondizia. In mezzo a tutto questo scorrazzano bambini di tutte le età e cani randagi rognosi.
Dopo pranzo ci prepariamo per raggiungere l'aeroporto. Purtroppo la nostra vacanza è finita e dobbiamo ritornare a Yangon per poi prendere l'indomani il volo per l'Italia. Arriviamo nella capitale che è già tardi. Facciamo gli ultimi acquisti presso le bancarelle accanto alla Shwedagon Paya, soprattutto piccole statue di Buddha e rosari in profumato legno di sandalo.
Poi ceniamo al ristorante Monsoon rinomato soprattutto fra i turisti occidentali (solo i turisti infatti possono permetterselo, troppo caro per i birmani...). Io mi azzardo ad assaggiare il Mohinga, il piatto tradizionale birmano. Si tratta di una zuppa di pesce gatto al curry con farina di ceci, noodles di riso e salsa di pesce. Il sapore è molto intenso, al secondo boccone ne ho già abbastanza. Difficilmente me ne dimenticherò.
Arrivederci Myanmar
Partenza all'alba, trascorreremo tutta la giornata tra aerei e aeroporti.
Gli altri viaggi…
© Iviaggidelcapo.it di Luisa e Adriano - since 1999
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