MALI

MALI

MALI

MALI

La falesia di Pays Dogon
e la moschea di Djennè

La falesia di Pays Dogon
e la moschea di Djennè

La falesia di Pays Dogon
e la moschea di Djennè

La falesia di Pays Dogon
e la moschea di Djennè

Mali, gennaio 2011

Dieci giorni nel paese africano sospesi tra la falesia di Pays Dogon e la moschea di fango di Djennè

Sarà possibile raggiungere Pays Dogon e passare qualche giorno nei villaggi senza gruppi organizzati?
Riusciremo ad assistere a una tradizionale danza funebre?
Potremo accarezzare le mura di fango della celeberrima moschea di Djennè? 
E, soprattutto, sarà possibile viaggiare in relativa sicurezza?
Alcune domande in merito al Mali e alle sue tradizioni ancestrali continuavano a girarci per la testa. Qualche risposta siamo riusciti a trovarla. 

Quale potrebbe essere un buon itinerario per visitare il Mali?

Noi abbiamo cercato di avere una panoramica ampia del Paese, cercando di non tralasciare le mete "imperdibili". Noi abbiamo visitato Bamako (la capitale) - Segou - Sangha -- La falesia di Bandiagara e Pays Dogon - Mopti e la Moschea di Djennè

Perché andare in Mali?

Da un po’ di tempo nei nostri discorsi sono tante le domande che si concentrano sul Mali. Dopo i viaggi in Tanzania, Namibia e Botswana siamo sempre più incuriositi dalla visione del mondo della popolazione locale, o quel poco che ne abbiamo letto: una sorta di filosofia astratta che rappresenta un’eccezione nella cultura africana. Approfondiamo l’argomento su alcuni testi, in particolare “Diario Dogon” di Marco Aime e “Dio d’Acqua” di Marcel Griaule e l’interesse si trasforma in qualcosa di più. Rimaniamo affascinati dalla popolazione Dogon e dalla loro complessa cosmogonia, dalle danze rituali, dalle sculture di legno e dall’architettura.

La decisione è presa: la prossima meta sarà il Mali, anche se alcuni recenti fatti di cronaca estera non lo consiglierebbero.

Facciamo le abituali ricerche in internet e capitiamo quasi per caso nel sito www.malitrek.com (adesso non è più funzionante). È simpatia a prima vista e per l’organizzazione del nostro viaggio decidiamo di affidarci all’esperienza di Stefano Capotorti. Stefano è sposato con una donna maliana e da anni abita con la sua famiglia a Bamako; tra le svariate attività collabora anche con Edoné, l’associazione culturale di Michele Stigliano che promuove un turismo responsabile e organizza itinerari di viaggio che favoriscono lo scambio culturale e il sostegno delle comunità locali dei villaggi.

Grazie alle donazioni fatte dai sostenitori di Edoné, Michele ha raccolto 1.200 euro. Il denaro è destinato alla scuola di Daga, un piccolo villaggio della falesia di Bandiagara e servirà per acquistare materiale didattico. Michele si fida di noi e ci incarica di portare il denaro a destinazione con la possibilità di documentare le varie fasi della donazione, dall’incontro con il preside all’acquisto del materiale fino alla consegna agli alunni della scuola. Accettiamo volentieri, contenti di far parte di questo progetto ed emozionati all’idea di contribuire all’istruzione dei giovani maliani.

Grazie agli studi di Marcel Griaule e Marco Aime rimaniamo affascinati dalla complesa cosmogonia della popolazione dogon

La partenza verso Bamako

Partiamo nel pomeriggio da Malpensa con un volo della Royal Air Maroc con destinazione Casablanca. Da qui ripartiremo in tarda serata per Bamako.

È notte fonda e durante il tragitto vediamo poco della città. Riposiamo qualche ora all’hotel Dunanso. L’hotel è molto carino ed è in stile africano. Dominano i colori caldi della terra, alle pareti sono appese le tradizionali maschere in legno e le porte sono intagliate secondo la tradizione maliana.

Di primo mattino scendiamo al piano terra per fare colazione e abbiamo subito il primo impatto (abbastanza traumatico) con la lingua: il mio francese non è più fluente e Adriano non lo parla.

Da Bamako a Segou, tra capanne di fango e vestiti sgargianti
Stefano viene a prenderci e ci affida ad Amadou, l’autista che sarà con noi per tutto il viaggio. È un ometto minuto, molto discreto ed educato. Sbrighiamo alcune formalità e partiamo subito per raggiungere SEGOU. Il traffico a Bamako è terribile e ci mettiamo un sacco di tempo per lasciare la città. Attraversiamo un ponte sul fiume Niger e nonostante sia la stagione secca il fiume ci sembra immenso.

C’è un’unica strada che collega Bamako a Ségou ed è ovviamente molto trafficata: camion, moto e autobus affollati in maniera inverosimile sfrecciano sulle strade strette e malridotte. Fortunatamente Amadou è molto prudente nella guida.

Attraversiamo numerosi villaggi, le capanne di fango sorgono nella brousse lungo la strada principale, in mezzo alla terra rossa e alla polvere alzata dal vento.

Le donne sono bellissime e hanno un portamento molto elegante e sensuale; indossano lunghi abiti dai colori sgargianti e ogni tanto dalle profonde scollature spunta maliziosamente una spalla nuda. In equilibrio sulla testa portano pesi incredibili, taniche di acqua, fascine di legno o ceste di frutta; sulla schiena gli immancabili bambini legati con drappi coloratissimi.

Anche gli uomini indossano completi dai colori vivaci e dalle fantasie decisamente ardite.

Arriviamo a Ségou che è già buio. Alloggiamo all’hotel Auberge e finalmente gustiamo il famoso poulet roti, il pollo allo spiedo. Ottimo!

Le donne sono bellissime. Indossano lunghi abiti dai colori sgargianti e hanno un portamento molto elegante e sensuale

Il mercato di Segou e le partenze dei migranti
Ci svegliamo presto perché vogliamo girare un po’ per la città prima di ripartire. Purtroppo ci fermeremo solo qualche ora e non vogliamo perdere l’occasione di dare un’occhiata intorno. Le strade sono sterrate e la polvere è dappertutto, è impossibile rimanere puliti.

Facciamo una passeggiata verso il fiume dove le donne stanno lavando i panni mentre gli uomini trasportano grandi carichi di sabbia con le piroghe.

Non troppo distante dal nostro hotel c’è un mercato dove vendono ogni tipo di merce, dalle stoffe alla frutta e verdura, dal pesce secco alla carne macellata sul posto.

Intorno a noi è una massa colorata in continuo movimento, una marea di gente con ogni mezzo di trasporto - biciclette, carretti, auto, autobus e camion così carichi che si muovono a malapena.

E proprio i camion sono impressionanti: il cassone è caricato all’inverosimile con merci imballate e molte persone sono sedute sopra il carico. Dentro l’abitacolo altre persone (quasi tutte donne con bambini, forse perché questi sono ritenuti i posti più comodi), dietro tra una bicicletta e un carretto attaccati alla meglio ci sono un paio di ragazzi in piedi, in equilibrio precario sul predellino. Altri potenziali passeggeri scalano il carico per trovare posto da qualche parte, in cima a tutto. Impossibile contare quante persone ci siano effettivamente sul camion. Vorremmo fare qualche foto ma la reazione dei passeggeri è molto aggressiva: Adriano chiede allora l’aiuto di un ragazzo incontrato poco prima tra le bancarelle chiedendogli di mettersi in posa per inscenare un ritratto e rubare così uno scatto delle carovane.

Facciamo un giro per il mercato e siamo investiti da un’infinità di rumori, odori e colori; le mosche sono dappertutto, soprattutto sulla carne maleodorante esposta al sole. Compriamo un po’ di tessuti colorati e alcune tipiche calebasse maliane, le ciotole dipinte ricavate da grandi zucche .

Purtroppo è arrivato il momento di partire, il tragitto è lungo e non possiamo perdere tempo.

La strada principale è asfaltata ma in pessime condizioni, le buche mettono ogni volta a dura prova la tenuta degli pneumatici. Il traffico è intenso e Amadou deve guidare con prudenza per evitare i carretti o gli stracarichi camion che arrancano sulla carreggiata.

Lungo il tragitto ci fermiamo in alcuni villaggi per comprare un po’ di banane per il viaggio: ogni mercato locale è un’esplosione di colori e una cacofonia di suoni e di voci.

A SAN facciamo una sosta per il pranzo presso il Campement Teriya, dove mangiamo ancora il poulet roti. Ancora non lo sappiamo ma il pollo con riso o cous cous sarà una costante dei nostri pasti.

Intorno a noi è una massa colorata in continuo movimento, una marea di gente con ogni mezzo di trasporto - biciclette, carretti, auto, autobus e camion così carichi che si muovono a malapena

L’arrivo a Bandiagara e il primo incontro con la scuola di Daga
Riprendiamo la jeep. Ogni tanto cerco di fare conversazione con il nostro autista ma Amadou non si distrae mai, non sembra mai stanco, non si ferma mai, non mangia mai, non beve mai. Sembra un alieno infaticabile.

A BANDIAGARA incontriamo la guida Souleymane e il direttore della scuola di Daga. Consegniamo ufficialmente al direttore il denaro raccolto dall’Associazione Edoné e in cambio riceviamo la “lista della spesa” compilata dai ragazzi della scuola. È un elenco lunghissimo di oggetti di cancelleria e di materiale didattico e non siamo sicuri che il denaro sia sufficiente per comprare tutto. Nn ci pensiamo sopra lasciamo anche noi un ulteriore contributo.

Portiamo la lista in una cartoleria che procurerà tutto il materiale richiesto; al termine del nostro giro nel Pays Dogon passeremo a ritirare gli scatoloni. 

Proseguiamo quindi verso SANGHA, la base di partenza dei trekking sulla falesia. Ormai è buio e Amadou per arrivare al campeggio è costretto a procedere a passo d’uomo lungo la strada sterrata piena di buche in mezzo alla brousse.

Il campement è molto spartano. Tra gli altri ospiti della struttura ci sono parecchi gruppi organizzati, soprattutto francesi e italiani.

Durante la cena definiamo con Souleymane i dettagli del nostro trekking. Souleymane è un bel personaggio, alto, sempre sorridente e ben vestito con abiti dai tipici tessuti dogon. Ci anticipa e ci rassicura che cammineremo per tre giorni dormendo nei villaggi anziché rientrare al campement ogni sera.

Il trekking tra i PAYS DOGON e la Table du Renard

Ci svegliamo all’alba per partire con il fresco. Purtroppo la guida è molto in ritardo e ci muoviamo quando il sole è già alto e in contemporanea con il gruppone organizzato. Chiacchierando con alcune signore scopriamo infatti che il primo tratto di trekking è praticamente sempre lo stesso.

Iniziamo camminando in piano sulla sommità della falesia. Appena usciti dal centro abitato incontriamo gli anziani auspici che interpretano i segni lasciati dalle volpi durante la notte. È la Table du Renard, un pezzo di terra recintato cosparso di segni, di bastoncini e di ciottoli. A richiesta dei loro clienti gli anziani la sera formulano alcune domande alla volpe e posizionano alcune arachidi sul terreno. La volpe è appunto ghiotta di arachidi e per mangiarle cammina sulla table spostando o rovesciando i bastoncini e i sassolini. Al mattino seguente gli indovini leggono e interpretano questi spostamenti come le risposte lasciate dallo sciacallo. La sensazione che il vecchio divinatore ricopra un ruolo che il turista si aspetta di trovare è molto forte: questa percezione tornerà spesso ma è inutile pensare sempre male...

Gli antichi villaggi tellem a Ireli
Proseguiamo lungo la falesia e entriamo in una sorta di canyon. La discesa è ripida e abbastanza impegnativa, lungo quello che pare il letto secco di un fiume. Lungo il cammino possiamo ammirare gli antichi villaggi Tellem, scavati all’interno della parete. A valle sorge il villaggio di IRELI, in parte costruito lungo la falesia e in parte ai piedi della roccia, nella pianura sottostante. Appena arrivati siamo subito accolti da uno stuolo di bambini mocciosi che fanno a gara fra loro per prenderci la mano.

I villaggi e le capanne sono costruiti secondo uno schema preciso. Le capanne costruite sulla roccia sono protette da grossi e sporgenti speroni che fungono da riparo durante la stagione delle piogge. Accanto alle abitazioni sorgono le capanne granaio, silos a pianta circolare con il tetto di paglia; accanto altre piccole capanne utilizzate come “ripostigli”. Nel centro del villaggio si trova il togu na, la casa della parola, dove si tengono le riunioni degli anziani. E’ formato da sette o otto pilastri in legno scolpito che sostengono un tetto di paglia. Su ciascuna colonna sono incisi i simboli della cosmogonia Dogon o figure umane. I pilastri sono alti circa un metro e all’interno del togu na è impossibile stare in piedi: chi vi entra è quindi costretto a incurvarsi e a stare seduto. Qui si discutono le decisioni importanti o le eventuali controversie. Si discute pacificamente seduti, chi è preso dalla collera e si alza bruscamente picchia la testa contro il tetto.

Nel centro del villaggio si trova il togu na, la casa della parola, dove si tengono le riunioni degli anziani.

Il rituale dei saluti dogon
Souleymane conosce tutti e a ogni incontro assistiamo al famoso rituale dei saluti. Avevamo letto nella guida turistica che i Dogon recitano una lunga e rigida formula di saluti che pressappoco può essere riassunta così: “come va, tutto bene? La famiglia? La moglie? I figli? La casa? Il lavoro?” A ogni domanda l’interlocutore risponde con un “Ah”, che significa sì. Al termine delle domande ricomincia l’altro, ripetendo la stessa identica formula. Insomma, per farla breve a ogni incontro si ripete una litania sempre uguale indipendentemente dall’interlocutore di circa 10-15 minuti. A volte Solò si allontana mentre l’altro sta ancora salutando...
Noi siamo sempre divertiti da questa simpatica usanza e sorridiamo a tutti, accennando saluti e provando a ripetere brevemente la formula. Ma proprio mentre Adri ed io ci stiamo esercitando nel rituale, qualcosa di inaspettato sembra manifestarsi.

Lo spettacolo della danza funebre dogon soltanto per noi

A Ireli il colpo di fortuna. Solò sente in lontananza alcuni colpi di tamburo e si precipita a verificarne il motivo! Fantastico, un gruppo di ragazzi composto da una ventina di elementi ha praticamente finito di provare la famigerata danza funebre delle maschere. Ci chiede se vogliamo assistere e inizia a confabulare con i più vecchi del gruppo per organizzare l’evento. Certo che vogliamo assistere, questa danza è praticamente lo scopo del nostro viaggio!

Ci costerà ben 100 euro ma ci consola pensare che questi soldi verranno distribuiti fra i numerosi danzatori e contribuiranno al sostentamento delle loro famiglie. L’intero villaggio è coinvolto nello spettacolo: i più anziani suonano mentre i giovani danzano indossando le pesanti maschere. Tutto intorno il pubblico, cioè il resto del villaggio e noi due.

La musica inizia con il ritmo ossessivo dei tamburi, a cui si aggiungono i cori e i flauti. A turno escono tutte le maschere e in una sorta di parata sfilano la lepre, il cacciatore, lo scorrere del tempo e il sole.

Ogni maschera e ogni movimento della danza hanno un significato simbolico. Una lunghissima maschera in legno rappresenta il sole e la testa del danzatore si muove a mimare il sorgere e il tramontare; la maschera Kanaga rappresenta il movimento della terra e la danza ricorda la rotazione terrestre. I ballerini sono uomini (la danza è infatti vietata alle donne) e indossano soltanto pantaloni blu con lunghi ornamenti di rafia colorata. Le maschere sono molto pesanti ed è certamente molto difficile seguire il ritmo della musica facendo ampi movimenti sotto il sole cocente.

Lo spettacolo è affascinante e siamo rapiti dal ritmo e dai colori per almeno mezz’ora. Il tempo di qualche scatto ricordo con i suonatori e dobbiamo proseguire il nostro cammino verso il villaggio successivo. Il sole è allo zenith ma fortunatamente siamo alla base della falesia e possiamo camminare in piano; facciamo solo un po’ di fatica a causa della sabbia.

A turno escono tutte le maschere e in una sorta di parata sfilano la lepre, il cacciatore, lo scorrere del tempo e il sole.

Il villaggio Banani e i letti sui tetti delle capanne
Attraversiamo il villaggio di PEGUE e proseguiamo verso la nostra meta, il villaggio BANANI. Qui pranziamo (pollo e riso) e passeremo la notte. Banani è diviso in quattro parti, veri e propri “quartieri” disposti intorno al nucleo centrale.

Appena arrivati facciamo un primo giro fra le botteghe di artigianato locale dove troviamo belle maschere e statue in legno. Riposiamo un minimo e torniamo a perlustrare i dintorni accompagnati da una guida amica di Souleymane.

Ci arrampichiamo di nuovo lungo la falesia per raggiungere il primo dei villaggi arroccato sulla montagna. Poi ci inerpichiamo ancora lungo il letto secco di un fiume. La salita è per noi abbastanza impegnativa perché le rocce formano dei gradoni enormi difficili da superare. Guardiamo con invidia la facilità con cui le donne africane scalano le rocce a piedi a nudi con pesanti brocche di acqua in equilibrio sulla testa. La forza delle donne africane riesce sempre a stupirmi, sono straordinarie.
Noi ci arrampichiamo con qualche sforzo in più e raggiungiamo una parte del villaggio quasi disabitata. La guida ci spiega che è rimasta una sola famiglia, raccontandoci che a poco a poco gli altri abitanti se ne sono andati a causa della distanza dal resto del villaggio e a causa della scomodità.

I bambini che ci accolgono sono bellissimi ma molti hanno evidenti segni di malnutrizione, pance gonfie con terribili ernie ombelicali, alcuni con estese eruzioni cutanee sulla testa. L’igiene è scarsa: le sorgenti d’acqua sono troppo lontane e scomode per permettersi il lusso di lavarsi spesso. Qui l’acqua viene utilizzata solo per le necessità primarie e l’igiene personale non è certamente fra queste.

Durante la discesa la guida ci propone una passeggiata fino alle dune. Da qui non sembrano particolarmente distanti e accettiamo volentieri. Purtroppo abbiamo fatto un errore di valutazione: sono lontane e camminare affondando nella sabbia mi taglia le gambe già a metà strada. Ma nonostante tutto riusciamo ad arrivare in cima... e il gioco è valso senz’altro la candela.
Da quassù il panorama è bellissimo, una vista completa della pianura che si estende a perdita d’occhio per circa 250 chilometri fino al confine con il Burkina Faso.

Torniamo al campement stanchi e sporchi. Fortunatamente abbiamo a nostra disposizione un bagno con la doccia (è un gentile eufemismo...) e riusciamo a rinfrescarci prima della cena (pollo e riso).

Dormiamo sul tetto, sistemiamo il materasso e il sacco a pelo a terra e leghiamo la zanzariera ai rami degli alberi. Le stelle sono il vero spettacolo delle notti africane. Rimaniamo a lungo sdraiati ad ammirare il cielo nero, accompagnati dalle risate dei bambini che giocano felici nelle stradine del villaggio. Poi di colpo il silenzio diventa totale, tutti vanno a dormire e si sente solo il rumore del vento tra le foglie degli alberi.

Verso Youga Piri, incontrando i peulh a Bombou

Ci svegliamo all’alba e visitiamo il villaggio di NENI con la guida che sostituisce Souleymane. La nostra guida ufficiale è tornata al suo villaggio perché la cognata ha partorito. Siamo molto felici che tutto sia andato bene ma purtroppo prima di proseguire nel nostro giro dobbiamo aspettare che i festeggiamenti siamo terminati e che Solò arrivi a prenderci.

Una volta ricostituito il nostro trio ci muoviamo e andiamo a visitare BOMBOU, un villaggio abitato dall’etnia peulh. Diversamente dai dogon, che sono prevalentemente agricoltori, i peulh sono una popolazione nomade dedita alla pastorizia e queste differenze si riflettono nelle caratteristiche dei villaggi e delle capanne. I villaggi peulh sorgono nella pianura ai piedi della falesia e sono costruiti secondo una pianta circolare attorno alla capanna principale, di paglia anziché di fango. Inoltre i peulh hanno tratti somatici diversi, più delicati, le donne indossano vistosi ornamenti e grandi orecchini d’oro. Durante l’adolescenza alle donne peulh vengono fatti dei segni di scarificazione sul volto e il contorno della bocca è tatuato in nero.

Appena scendiamo dalla jeep siamo circondati dalla solita marea di bambini vocianti che chiedono incessantemente in coro argent, bic e bon-bon. Per fare le foto all’interno del villaggio dobbiamo pagare ma nonostante il minimo esborso pattuito, le richieste di denaro continuano senza sosta. Fra un po’ ci chiederanno soldi anche per respirare.

Il mercato dove tutto è in vendita
Solò decide di portarci in un villaggio poco distante dove c’è un grande mercato. Lungo la strada incrociamo numerosi carretti carichi di prodotti di ogni tipo, tutti diretti al villaggio.
Solò conosce tutti e passa un tempo interminabile a salutare. Nel mercato c’è una confusione pazzesca, gente dappertutto, colori sgargianti e odori orribili, complice il caldo mostruoso.

Il mercato è diviso in settori, frutta e verdura da una parte, tessuti e abbigliamento da un’altra, pesce secco (molta puzza!) e carne macellata, scuoiata e tagliata sul posto. Le pelli e le interiora sono lasciate all’aria aperta sotto il sole e l’odore del sangue e della carne che macerano al sole è davvero vomitevole.

Siamo l’attrazione del mercato visto che siamo gli unici bianchi e siamo seguiti dal solito serpentone di bambini. Gironzoliamo incuriositi tra le bancarelle. Attirano la nostra attenzione quelle dedicate alla riparazione delle biciclette o quelle che vendono pezzi meccanici. Non esistono oggetti inutili o rifiuti ma tutto è messo in vendita perché può avere una sua utilità: elastici, pezzi di corda, bottiglie di plastica, tappi. Alcuni oggetti sono così sporchi o malconci che non riusciamo nemmeno bene a capire cosa siano. In Africa qualsiasi oggetto può essere riutilizzato e risorgere a nuova vita.


Due stranieri bianchi nel villaggio!
Souleymane ci propone di mangiare nel “ristorante” del villaggio. Sappiamo di non doverci aspettare niente di simile a un vero e proprio locale ma ciò che troviamo è ben aldilà della nostra immaginazione.

Il ristorante è un edificio in fango: all’esterno, sotto una tettoia, le donne cucinano accovacciate a terra e il cibo cuoce in grandi pentoloni sulle braci incandescenti. Polvere e sporcizia volano dappertutto. Entriamo e gli avventori ci guardano come se fossimo due extraterrestri (e forse ai loro occhi un po’ lo siamo...).

Non ci sono tavoli ma solo sedute e giacigli fatti di terra e fango, coperti con alcune stuoie colorate. Mangiamo pollo e riso (!) servito in ciotole di plastica molto sporche e molto unte; come cortesia per gli ospiti stranieri ci portano le posate, mentre i locali mangiano con le mani. Il cibo è buono anche se sotto i denti sento scricchiolare la sabbia. Faccio finta di niente e svuoto il piatto, lasciando solo le ossa del pollo. Solò e Amadou senza troppi complimenti prendono i miei avanzi e spolpano le ossa rimaste. Mentre mangiamo ogni tanto scorgo una testa che fa capolino dall’esterno o dalle altre stanze. Deve essersi sparsa la voce che due stranieri sono nel villaggio e sono venuti a vederci.

Nonostante i miei avvertimenti Adri assaggia un succo di ginger fatto artigianalmente e conservato in una lurida bottiglia di plastica. Coraggioso.

Riprendiamo la jeep per spostarci verso la base della falesia e da qui riprendere il cammino per i villaggi arroccati. Buchiamo per la prima volta e lasciamo Amadou alle prese con la ruota da riparare.

Prendiamo l’occorrente per la notte e partiamo a piedi. La salita è abbastanza dura e purtroppo il ginocchio inizia a farmi un po’ male. Arrivati a YOUGA PIRI ci godiamo il panorama e la pace. Il villaggio è quasi mimetizzato nella montagna perché le capanne sono costruite addossate alle pareti rocciose. Le casette, basse costruzioni in fango, sono arroccate lungo la falesia.

Anche qui dormiamo sul tetto di una piccola costruzione del campement. La sistemazione è molto spartana, non ci sono né luce né acqua corrente e la toilette è una latrina maleodorante. Dobbiamo fare un po’ di attenzione per salire sul tetto, i pioli della scaletta in legno sono molto piccoli e a malapena riusciamo a infilarci i piedi. E dopo la prima birra le difficoltà aumentano....

Il sole tramonta presto e facciamo appena in tempo a cenare con la luce naturale. Solò ha comprato il montone al mercato e lo ha fatto cucinare alla brace. Io non lo mangio perché non mi piace, non sono molto carnivora e già l’odore mi fa stare male. Terminata la cena ci prepariamo il giaciglio con la zanzariera e ci corichiamo prestissimo.

Non esistono oggetti inutili o rifiuti ma tutto è messo in vendita perché può avere una sua utilità: elastici, pezzi di corda, bottiglie di plastica, tappi. Alcuni oggetti sono così sporchi o malconci che non riusciamo nemmeno bene a capire cosa siano

Il meraviglioso panorama dalla sommità della falesia

Sveglia all’alba e partenza subito dopo colazione. Da YOUGA PIRI saliamo sulla cima della falesia. Il percorso è abbastanza impegnativo perché le rocce formano gradoni molto alti. Incontriamo un gruppo di donne che sta salendo per procurarsi l’acqua. Una di loro è caduta, si è fatta male a un ginocchio e ha perso l’acqua. Poverina, non riesce quasi più a camminare. È incredibile vedere queste donne arrampicarsi lungo le rocce a piedi nudi o con le infradito, con i contenitori dell’acqua in equilibrio sulla testa e i bambini attaccati alla schiena.

Arriviamo sul plateau della falesia, la roccia è piatta e completamente erosa dal vento forte. Il panorama è meraviglioso, la pianura si estende a perdita d’occhio per chilometri e chilometri. In cima non c’è nulla, solo la nuda roccia spazzata dal vento. Dall’alto vediamo il villaggio di YOUGA DOGOROU, dal quale sono partite altre donne in cerca dell’acqua.

Il passaggio sul precipizio
Iniziamo la discesa lungo il versante opposto. È molto ripido e spesso si aprono profondi crepacci fra le rocce. A un certo punto vedo la nostra guida ridere mentre si affaccia su un profondo precipizio. Ci dice che dobbiamo passare da lì. Lo guardo un po’ perplessa: dobbiamo camminare sopra una sorta di ponticello fatto di rami secchi e pietre. Sotto di noi il vuoto buio, senza nessuna protezione. Soffro di vertigini e ho un po’ paura. Intanto il vento soffia fortissimo e le raffiche sono così potenti che mi fanno quasi perdere l’equilibrio. Pessima situazione visto che devo attraversare i rami intrecciati, larghi poco più del mio piede. Ma mi concentro e riesco a raggiungere l’altro versante.

A un certo punto arriviamo a un crepaccio ancora più profondo. Mi affaccio ed è tutto buio. Guardo sgomenta la nostra guida e capisco che bisogna calarsi per un tratto. Solò cerca di rincuorarmi mostrandomi una scala a pioli. In realtà si tratta di un tronco appoggiato alla parete di roccia su cui sono state intagliate delle scanalature, come se fossero dei gradini. L’unica protezione per evitare di cadere nel vuoto sono alcuni tronchi e rami che fungono da parapetto. Ho paura e non lo nascondo, ma seguendo alla lettera le indicazioni di S. riesco a raggiungere uno sperone di roccia dove mi sento più sicura. Adriano invece scende senza nessuna esitazione.

"Hey there, this is the default text for a new paragraph. Feel free to edit this paragraph by clicking on the yellow edit icon" 

Ci troviamo in un profondo e stretto canyon all’interno della falesia. Siamo circondati da alte pareti di roccia di colore ocra rosso e marrone combinati in infinite sfumature. Lungo le pareti possiamo scorgere ancora le antiche dimore dei Tellem, l’antica popolazione di questa zona, ora usate principalmente dai Dogon come granai. Durante la stagione delle piogge il canyon è impraticabile, l’acqua scorre dappertutto e forma un vero e proprio fiume. Al termine del canyon sorge il villaggio di YOUGA NA. Appena sbuchiamo dalla montagna siamo assaliti dai soliti bambini che ci chiedono braccialetti, magliette, soldi e caramelle.

In questa stagione i villaggi sono molto belli, ma l’impressione è che durante la stagione delle piogge la vita sia molto difficile. La nostra guida ci conferma che il paesaggio cambia completamente, l’acqua è dappertutto e molto spesso le capanne di fango cedono a causa degli acquazzoni. Gli abitanti iniziano in questo periodo a rinforzare le proprie abitazioni proprio in previsione delle abbondanti piogge, in modo da rendere le capanne più resistenti all’acqua.

La fine del trekking e l’inizio dei pellegrinaggi al bagno
Il nostro trekking è terminato e ci incontriamo di nuovo con Amadou. In jeep ritorniamo al villaggio di Banani, passando da Ireli (il villaggio dove abbiamo assistito alla danza con le maschere). Visti da un altro punto di vista i villaggi sono diversi, dal basso della pianura ci sembrano tanti presepi.

A Banani alloggiamo nello stesso campement dell’andata. Passiamo ancora la notte sul tetto ma purtroppo questa volta Adriano si sente male, forse ha mangiato o bevuto qualcosa che ha avuto pessimi effetti sul suo intestino. Durante la notte è un continuo pellegrinaggio al bagno, mi dispiace perché siamo in una situazione particolarmente scomoda e spartana. Ogni volta deve aprire il sacco a pelo, uscire dalla zanzariera, scendere dal tetto lungo una ripida scala a pioli, raggiungere il bagno e lottare con i numerosi rospi che saltano dappertutto. Faticosissimo!

La visita ufficiale alla scuola di Daga

Ci svegliamo all’alba e Adri ancora non sta bene. Non ha dormito ed è molto debole e stanco. Oggi sarà purtroppo una giornata molto impegnativa perché abbiamo la “visita ufficiale” al villaggio e alla scuola di DAGA.

La prima tappa è SANGHA, il villaggio costruito sul plateau della falesia. Attraversiamo una zona verdissima dove sono coltivate le famose cipolle dei Dogon. Qui ogni fase della coltivazione è fatta a mano, dallo zappare la terra alla semina fino all’irrigazione. Come sempre le donne portano in equilibrio sulla testa grandi e pesanti brocche con l’acqua per bagnare i campi. Molti uomini lavorano la terra e anche qualche bambino contribuisce all’attività. Il panorama da quassù è bellissimo, la pianura a perdita d’occhio circonda completamente la falesia.

La casa di Ogotemmeli, il cacciatore cieco
Souleymane è originario di Sangha e ci porta a visitare la sua casa e a conoscere la sua famiglia. Visitiamo anche la casa di Ogotemmeli, il cacciatore cieco protagonista del libro di Griaule. La parete esterna dell’edifico è ornata di cimeli e oggetti propiziatori.

A Sangha carichiamo sulla jeep gli scatoloni con la cancelleria da portare alla scuola. Solò ci informa che saremo accolti dalle autorità di Daga e della scuola. Oggi è sabato e normalmente le scuole sono chiuse ma per l’occasione tutti gli alunni saranno presenti per incontrarci.

Appena arrivati siamo ricevuti da una piccola delegazione, tra cui riconosciamo il direttore della scuola accompagnato dai maestri e da alcune autorità locali. Stringiamo formalmente la mano a tutti. Visitiamo le tre classi e appena entriamo i bambini si alzano educatamente in piedi e ci danno il benvenuto in coro. Sono bellissimi, con grandi occhi curiosi, i visini dapprima timidi e un po’ seri, ma subito pronti ad aprirsi in grandi sorrisi non appena ci sediamo con loro nei banchi.

Sono quasi tutti a piedi nudi, vestiti con magliette piene di buchi o stracciate, impolverati e con il moccio al naso. Le bambine sono vestite con abiti coloratissimi e alcune hanno legati sulla schiena i fratellini più piccoli.

I bambini a scuola sono educatissimi e molto carini: dapprima timidi e seri ma subito pronti ad aprirsi in grandi sorrisi con gli ospiti

La consegna del materiale e la partita di pallone 
Portiamo in aula gli scatoloni sotto lo sguardo attento e curioso dei bambini; i loro occhioni non si perdono un movimento.

Oggi siamo al centro dell’attenzione, cerco di passare inosservata sedendomi nei banchi insieme agli alunni ma non funziona, sono troppo grande e i miei colori attirano inevitabilmente gli sguardi di tutti. Adriano è il reporter ufficiale dell’evento, documenta tutto e scatta fotografie da mostrare a Michele una volta rientrati in Italia.
Apriamo gli scatoloni ed esponiamo sul pavimento tutti gli oggetti, bene in vista ai piedi delle autorità. Ci sono quaderni, penne, matite, gomme, lavagnette, gessi, libri, nastro adesivo, ma soprattutto...... il pallone e le divise da calcio.

Souleymane non perde tempo e con il suo buon umore contagioso annuncia le formazioni; i giocatori convocati arrivano di corsa e si mettono in fila per la distribuzione delle divise e delle scarpe. Aiutiamo i piccoli giocatori a indossare le maglie di Eto’o e Drogba e a tempo di record le squadre sono in campo, pronte per le foto ufficiali.

La guida fischia l’inizio della partita e i bambini ormai vedono solo il pallone e corrono verso la porta avversaria, incuranti del caldo infernale, delle linee di bordo campo e dei tifosi che verranno travolti.
La loro gioia è contagiosa e l’impegno dei giocatori e il tifo del pubblico sono da finale di coppa del mondo.

Il pubblico si fa sempre più numeroso: attirati dalle grida arrivano alla spicciolata altri spettatori per non perdersi l’evento della giornata.

Fa un caldo da svenire ma nessuno ci fa caso, solo a tarda sera mi renderò conto che ho le spalle ustionate. La bolgia è tale che non capisco chi sia l’arbitro (il direttore? Souleymane? Adriano?) ma non importa, ciò che conta veramente è che i ragazzini si divertano. E qui si stanno divertendo un po’ tutti, comprese le autorità, gli abitanti del villaggio e noi.

La partita termina 1-1 nonostante un rigore inesistente - e non concretizzato - fischiato da Adriano contro l’Inter. Rientriamo accaldati nell’aula per procedere alla distribuzione vera e propria della cancelleria. Io prendo posto nei banchi insieme agli alunni e lascio ad Adriano il posto d’onore in pedana per immortalare l’evento.

Siamo entrambi emozionati e un po’ commossi. Non potremo mai dimenticare la gioia e i sorrisi di questi ragazzini.

Siamo entrambi emozionati e un po’ commossi. Non potremo mai dimenticare la gioia e i sorrisi di questi ragazzini

Il concetto africano di “tempo”
Terminata la cerimonia purtroppo a malincuore ci dobbiamo salutare. Dobbiamo riprendere il viaggio verso MOPTI, la strada è lunga e purtroppo non possiamo trattenerci oltre. Salutiamo i nostri nuovi amici e dopo una sosta in un ristorantino nei pressi di Daga salutiamo anche la nostra guida.

Proseguiamo il nostro viaggio verso Mopti attraversando la zona verdeggiante del plateau. Appena arrivati a Bandiagara buchiamo ancora la gomma. Purtroppo le operazioni di sostituzione e di riparazione della gomma danneggiata richiedono ore e ormai il sole è tramontato. Si sa, in Africa il tempo è un concetto molto elastico... Peccato solo non essere arrivati in tempo a Mopti per vedere calare il sole sul fiume Niger. Raggiungiamo Mopti quando ormai è tutto buio e non ci resta che andare all’hotel “Y a pas des probleme”.

Passaggio a Mopti, tra pesce marcio, spazzatura, mosche e gas di scarico. 
Abbiamo appuntamento con la guida locale Aligui che ci porterà a fare colazione al bar Bozo, un locale sulle rive del Niger molto famoso in Mali.

Amadou non ci molla un attimo e ci accompagna con la jeep. Per un tratto costeggiamo il fiume e attraversiamo la zona del mercato del pesce. C’è una confusione terribile, affollato di gente a piedi indaffaratissima nelle varie contrattazioni. L’odore di pesce marcio misto a spazzatura è rivoltante, siamo costretti a respirare con la bocca. Scendiamo dalla jeep per dare un’occhiata e gironzoliamo un po’ frastornati dalla confusione. Le bancarelle vendono esclusivamente pesce, guardiamo con attenzione la merce esposta e ci sembra che l’intera bancarella stia ondeggiando. Guardo meglio ed effettivamente sembra quasi che un’onda scura si stia muovendo. Non credo ai miei occhi: sono mosche, migliaia di mosche che si posano e che camminano sul pesce esposto!

Purtroppo il bar Bozo è chiuso, aspettiamo un po’ la guida ma non si fa vedere. È un peccato perdere il tempo in questo modo; decidiamo quindi di tornare all’hotel per fare colazione. Intanto abbiamo perso la mattina senza aver fatto niente di interessante.

Cerchiamo di recuperare visitando velocemente alcune zone della città, tra cui la moschea, costruita a modello della più famosa moschea di Djenné, e il ponte sul fiume Niger, affollato di auto, motociclette, bici e gente a piedi. L’aria è irrespirabile a causa dei gas di scarico dei veicoli. La città è molto sporca, le sponde del fiume sono interamente ricoperte di immondizia, una grande discarica a cielo aperto in cui alcuni bambini girano a piedi nudi in cerca di qualcosa da recuperare. Uno spettacolo desolante.

Finalmente Djennè e la sua moschea

Siamo di fretta e ripartiamo quasi subito per Djenné senza vedere nient’altro di Mopti. Fortunatamente il viaggio non è molto lungo e arriviamo abbastanza presto. Alla partenza delle chiatte per attraversare il fiume Bani - un affluente del fiume Niger - incontriamo la nostra guida.

Si presenta come John Travolta, a ricordo del suo passato di grande ballerino e viveur. È alto e secco come un giunco, elegantissimo nel suo abito doppiopetto nero.
Djenné sorge in una vasta pianura verde. Siamo nella stagione secca e la città è circondata dalla terra ferma, solo in alcuni punti sono rimaste alcune pozze d’acqua. John ci spiega che durante la stagione delle piogge l’intera pianura si trasforma in un  grande lago e Djenné diventa una sorta di isola circondata dall’acqua, le strade sono sommerse e gli spostamenti avvengono solo con le piroghe.

In città soggiorniamo all’”Auberge Le Maafir”, un hotel molto carino con una grande e rilassante corte interna. Djenné è molto più turistica rispetto al resto del paese e infatti incontriamo alcuni viaggiatori di tutte le nazionalità.

Il guado del fiume Bani
John ci porta a visitare alcuni villaggi che sorgono sulla pianura intorno alla città. La prima tappa è un villaggio peulh dove vive una ragazza famosa per i grandi orecchini che indossa. È la solita trappola per turisti: dobbiamo pagare per fare delle foto che probabilmente anche tutti gli altri turisti hanno. Ho notato che comunque dobbiamo pagare un po’ per fare tutto e tutti chiedono continuamente soldi. Questo mi innervosisce un po’...

Ci spostiamo poi a Silimou, un villaggio Bozo poco distante.

Lasciamo la jeep, il villaggio si trova sulla riva opposta di un canale e dobbiamo salire su una piroga per attraversarlo. Saliamo insieme ad alcuni passeggeri locali che traghettano un po’ di tutto - pacchi, fascine di legno, bambini, biciclette e moto. Il panorama è molto bello e la luce del sole che tramonta fa risaltare la silhouette della moschea di fango. Peccato solo che il cielo sia molto grigio a causa dell’umidità.

Facendo ritorno verso Djenné vediamo numerosi pastori peulh che portano il loro bestiame a pascolare nella pianura. Sono molto belli, alti ed eleganti con indosso i caratteristici copricapo a cono.

Siamo nella stagione secca e Djenné è circondata dalla terra ferma. Durante la stagione delle piogge la città diventa una sorta di isola circondata dalle acque

L’accesso alla moschea di Djennè vietato ai non musulmani
Ci svegliamo all’alba per visitare l’interno della moschea. Un cartello avvisa che l’accesso è vietato ai non musulmani, ma John non se ne cura. Ci spiega che a quest’ora possiamo facilmente eludere la sorveglianza e visitare l’interno senza la ressa dei fedeli raccolti in preghiera. In realtà ci chiede dei soldi per corrompere le guardie...

L’accesso alla moschea, da quanto ci viene raccontato, una volta era libero. Purtroppo, in occasione di uno shooting fotografico per uno spot di intimo, l’imam ed altri fedeli si resero conto che il cortile della moschea era stato “violato” da alcune donne in costume da bagno e venne presa la decisione di vietarne l’ingresso agli infedeli. Ma di fronte a 10 dollari tutto può prendere una piega differente...

La moschea viene ricostruita ogni anno
All’interno la moschea è molto spoglia: la grande sala della preghiera è divisa da colonne senza alcun ornamento, la luce che filtra dalle finestre rende però l’ambiente molto suggestivo. John ci spiega che la moschea viene rifatta ogni anno prima della stagione delle piogge. Centinaia di uomini volontari lavorano incessantemente per giorni in modo da rinforzare la struttura e resistere all’acqua.

La moschea è molto bella ma purtroppo anche oggi il cielo è grigio. I colori sono piatti e la sagoma della moschea quasi si confonde con il grigiore generale. Adriano vuole fare alcune foto dall’alto, chiediamo a John se possiamo salire sui tetti di alcune abitazioni che si affacciano sulla piazza. Pas des problèmes, basta pagare...

Giriamo un po’ tra le viuzze accompagnati da John. La città è un dedalo di vie tutte uguali che si snodano tra le case di fango. Polvere e sporcizia dappertutto. Rigagnoli di liquami neri scorrono ai lati delle vie; i bambini a piedi nudi calpestano un po’ di tutto - escrementi di animali che pascolano indisturbati, rifiuti di ogni genere, ratti enormi morti. Ogni tanto le puzze sono insopportabili. I bambini più piccoli camminano a malapena, in equilibrio precario sulle esili gambe. Sono senza mutande e senza pannolini, cagano e pisciano tranquillamente in strada, cadono con le mani nei rifiuti e negli escrementi, si rialzano e si mettono le mani in bocca. A nulla valgono le campagne di sensibilizzazione per una maggiore igiene, le strade sono tappezzate di manifesti che esortano a lavarsi le mani con il sapone e in generale a una maggiore pulizia ma evidentemente nessuno li guarda.

Polvere e sporcizia dappertutto. Rigagnoli di liquami neri scorrono ai lati delle vie

Le donne bambara e le fascine al mercato
Andiamo lungo il fiume dove attraccano le piroghe. Dai villaggi vicini arrivano le donne Bambara per vendere al mercato le loro fascine di legno. Le fascine sono scaricate dai traghettatori e buttate nell’acqua. Le donne, a una a una, le ripescano e le portano a riva gocciolanti. Qui, facendosi aiutare da un’amica, caricano le fascine in bilico sulla testa e a piedi vanno al mercato a scaricarle. Poi tornano e ne caricano un’altra. La scena si ripete identica fino a quando non hanno trasportato tutte le fascine. A fine giornata si ricomincia e bisogna ricaricare tutto sulla piroga e fare ritorno al proprio villaggio. Ogni fascina pesa oltre 20 chili: abbiamo provato a sollevarne una e a malapena siamo riusciti a spostarla. Alcune donne fanno tutto questo con i figli legati sulla schiena. Fatica immane.

Oggi è dunque giornata di mercato. La manifestazione si svolge nella piazza della moschea e nelle vie intorno. E’ una bolgia pazzesca, in un contesto surreale. Da una parte un capolavoro architettonico, Patrimonio dell’Umanità protetto dall’Unesco. Di fronte gente che urla, tossisce, starnutisce a pochi centimetri dalla tua faccia. Tutti ti urtano, ti toccano, i bambini ti prendono per mano, i carretti ti vengono addosso continuamente. Avanzare in mezzo a questa bolgia compatta è un’impresa. Gli odori sono tremendi, nella zona delle bancarelle del pesce essiccato è impossibile respirare. Fa un caldo terribile.

Riusciamo a trovare il tempo per visitare la biblioteca del paese: ha una grande collezione di manoscritti ben conservati e una interessante ricostruzione della moschea in scala ridotta. Ci addentriamo ancora nel dedalo delle viuzze del villaggio. Scuole coraniche e botteghe si susseguono alle basse abitazioni a due piani. La moschea e la relativa protezione dell’Unesco, grande fortuna per la località, ne è anche la grande sfortuna: sembra infatti che sia vietato per gli abitanti ogni forma di modifica delle strutture originarie. In pratica è come se fosse vietato l’ammodernamento o la modifica costruttiva delle abitazioni, in una sorta di “immobilismo evolutivo” un po’ irreale e forzato.

Continuiamo a girare provando a “chiacchierare” con gli abitanti locali, ma fa molto caldo e molto umido per cui, stremati, decidiamo di fare ritorno all’hotel, un’oasi felice dove gli odori e i rumori della piazza non entrano con troppa forza.

La moschea e la relativa protezione dell’Unesco, grande fortuna per la città, ne è anche forte vincolo: rimane vietato per gli abitanti ogni forma di modifica delle strutture abitative originarie

Ritorno a Bamako
Oggi dobbiamo rientrare a Bamako. Purtroppo il tragitto è lunghissimo e trascorriamo tutta la giornata in auto. Arriviamo in serata a Bamako, Amadou è stremato dopo aver guidato tutto il giorno. Ceniamo al ristorante Santoro.

Il mercato artigianale di Bamako
Fortunatamente abbiamo il volo in serata e quindi possiamo trascorrere l’intera giornata a Bamako. Facciamo un giro al mercato artigianale dove ci sono botteghe con oggetti molto interessanti. Attirano la nostra attenzione soprattutto le bancarelle dei guaritori; tra bacche mai viste e intrugli puzzolenti ci sono pelli di serpente, teschi, corna, zoccoli, artigli di uccelli e altri oggetti misteriosi che ci fanno pensare alla magia nera.

Amadou ci scorta come una body guard e non ci molla un attimo anche se è evidentemente annoiato. Proprio in questi giorni due francesi sono stati uccisi al confine col Niger e forse non si fida a lasciarci soli in mezzo alla folla.

In realtà durante il nostro giro non abbiamo mai avuto la sensazione di essere in pericolo. Abbiamo però percepito la preoccupazione delle guide turistiche. I recenti fatti di cronaca hanno infatti avuto pessime ripercussioni sul turismo. Navigando in internet apprendiamo che il presidente Sarkozy ha suggerito ai turisti francesi di non recarsi in Niger e in Mali. Purtroppo anche in Italia le notizie non sono incoraggianti. Amadou è molto preoccupato e spera che le violenze non si diffondano anche all’interno del pacifico Mali.

Gli altri viaggi…

© Iviaggidelcapo.it di Luisa e Adriano - since 1999

© Iviaggidelcapo.it di Luisa e Adriano - since 1999